del non profit «certi ingredienti del capitalismo che farebbero bene alla solidarietà». Perché per fare
del bene non basta avere un “progetto bellissimo”Il mondo delle banche non l’ho mai amato: ha regole elementari e un livello culturale basso. Però resto convinta che certi ingredienti del capitalismo farebbero bene anche alla solidarietà». Sono parole paradossali quelle di Paola Pierri, ex banchiera d’affari che ha raggiunto i gradi più alti toccati finora da una donna nel mondo finanziario, direttore generale di Ubm – Unicredit banca mobiliare e condirettore centrale del Gruppo Unicredit fino al 2006. «È stata un’esperienza folle», confessa, «sono felice di averla fatta, ma quel mondo non mi apparteneva. Così mi sono costruita una seconda vita e oggi mi dedico all’attività di consulenza per il settore non profit».
Com’è arrivata a fare la manager di una banca d’investimenti?
Certi mestieri non si scelgono, capitano. Se un bimbo raccontasse che il suo sogno è fare carriera in banca, credo che la mamma si preoccuperebbe… Io mi sono laureata in economia a metà anni 80, in un periodo d’oro per la finanza, perché avevo bisogno di rendermi economicamente autonoma. La mia è stata una decisione puramente strumentale.
Questo non le ha impedito di arrivare ai massimi livelli…
Ho avuto un’enorme fortuna. Nel 1998 sono entrata in un gruppo in grande crescita come Unicredit, che esprimeva il meglio del mondo bancario, e qui ho avuto l’opportunità di lavorare al fianco di uomini come Alessandro Profumo e Pietro Modiano, tra i migliori di quel gruppo. Eppure non mi bastava: mi sentivo soffocare. Così ho sempre tenuto un piede in due scarpe: fuori dal lavoro seguivo progetti di cooperazione internazionale. Un’attività di cui non avevo mai fatto parola con nessuno, almeno fino al 2002.
Che cosa accadde quell’anno?
Ero molto impegnata in Kosovo e la cosa venne all’orecchio di Profumo.
La prese male?
Era preoccupato: pensava fosse troppo pericoloso. Così quando partii, mi costrinse a portarmi appresso un telefono satellitare, che pesava quanto una cabina telefonica. «Almeno potrai chiedere aiuto in caso di bisogno»
E lei li chiamò dal Kosovo?
Macché. Quel satellitare non ha mai funzionato. Però qualche mese più tardi, quando Profumo decise di dar vita a Unidea, la corporate foundation di Unicredit per i programmi di intervento sociale, mi affidò il progetto: ero l’unica “esperta” del settore. Ci sono rimasta per circa quattro anni.
Oggi di che cosa si occupa esattamente?
Il non profit italiano è un mondo straordinario per ricchezza e potenzialità. Ma è molto legato a una logica di spontaneismo che rischia di disperderne energie e fondi. Io lavoro per introdurre in questo settore professionalità e razionalità, metodi e strutture organizzative che sono state fino ad oggi patrimonio delle grandi imprese.
Così non si perde la “spinta ideale”?
Negli Usa su questo tema si è aperto un grande dibattito. Qui in Italia c’è il concetto di una idealità che deve restare pura; la professionalità e le competenze tecniche di chi opera nel non profit sembrano non contare: l’importante sono le buone intenzioni. Così però si arriva a un paradosso.
Quale?
Se voglio dar vita a una società di leasing e non ho le competenze adeguate mi rivolgo a consulenti ed esperti del settore, organizzando meticolosamente il lavoro. Se invece voglio portare aiuti alimentari in Zambia mi sento perfettamente qualificato per farlo. Il volerlo fare è sufficiente. Lei ha mai sentito qualcuno ammettere che il suo progetto di aiuto in Africa è finito male? Peccato che 60 anni di “progetti bellissimi” abbiano portato agli attuali disastrosi risultati della cooperazione internazionale: l’unico fallimento fatto da una somma di grandi successi. La verità è che oggi non esiste la possibilità di verificare l’esito di quanto viene fatto.
Forse ammettere gli errori farebbe male alla raccolta fondi…?
Invece dovremmo dare i nostri soldi proprio a chi ha il coraggio di dirci che ha sbagliato. Almeno non mente.
Oggi a chi si rivolge la sua attività di Philanthropy Advisory?
Alle aziende e alle corporate foundation, spesso gratuitamente. È un investimento che sto facendo perché cambi la mentalità. E più le società sono grandi, più è difficile: non posso fare nomi, ma ho sentito dire e visto realizzare colossali sciocchezze… In linea generale consiglio a tutti di fare attenzione a come si chiamano le diverse iniziative benefiche pubblicizzate dalle aziende: ogni volta che compaiono le parole “sorriso”, “cuore”, “sole”, “raggio”, meglio lasciar perdere.
Il non profit cambierà modi e strumenti dell’agire?
Sarà un processo lento perché il salto culturale che viene richiesto è immenso, ma ineluttabile.
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