Welfare

Zamagni: «Sì alla flessibilità, ma non solo in uscita»

«La vera sfida è la flessibilità in entrata», dice l'economista

di Redazione

«Se vogliamo parlare in termini di slogan allora bisogna dire: no al posto fisso, si al lavoro fisso. Questo è il vero slogan che Monti avrebbe dovuto dire». È il punto di vista di Stefano Zamagni, in un’intervista rilasciata a Tiscali Notizie

Monti ha dichiarato che i giovani devono dimenticare il posto di lavoro fisso. Cosa pensa di questa dichiarazione? «Il passaggio dalla società industriale a quella post industriale» spiega Zamagni, «tra le tante cose comporta che il posto fisso di lavoro non può più essere garantito, non perché lo dice Monti ma perché lo dicono i fatti. La società post industriale ha generato un disallineamento tra cicli lavorativi e cicli tecnologici. Fino a 20, 30 anni fa il ciclo tecnologico coincideva con quello lavorativo che all’incirca era di 40 anni. Questo implicava che un lavoratore per 40 anni poteva fare sempre la stessa mansione. Oggi non è più così. Sull’arco dei 40 anni si deve pensare in media a tre cicli tecnologici ovvero a tre mansioni diverse. Questo però non vuol dire precarietà».

Il governo intende rilanciare il mercato del lavoro aumentando la flessibilità in uscita. E’ questa la giusta strada da percorrere? «Per i motivi detti prima è evidente che oggi nel mondo del lavoro c’è bisogno di maggiore flessibilità rispetto al passato ma questa deve essere in entrata e non in uscita. In Italia si sta sbagliando tutto perché la flessibilità viene interpretata solamente come facilità di licenziamento. Questa condizione potrà esserci solamente dopo che si è affrontato e risolto il nodo della flessibilità in entrata. Un lavoratore non si sente minacciato dalla perdita di un lavoro solamente se sa che può trovarne velocemente un altro».

Per aumentare la flessibilità in ingresso rimane però il nodo della creazione di nuovi posti di lavoro. Come risolvere questo problema? «Agendo su tre aspetti distinti. Primo: pluralizzare le forme di impresa. Il settore capitalistico dell’economia, cioè le imprese for profit, non possono dare occupazione a più dell’80% della forza lavoro. Chi afferma il contrario è un mentitore. Pluralizzare il mercato del lavoro vuole dire affiancare alle imprese di tipo capitalistico imprese di altro tipo, come le cooperative e le imprese sociali, che all’estero stanno avendo molto successo e che noi in Italia invece stiamo bloccando. Dobbiamo perciò allargare la platea delle imprese che un lavoratore ha a disposizione. Secondo: bisogna cambiare il sistema educativo scolastico e universitario per renderlo adeguato al dialogo con il mondo del lavoro. L’Italia soffre di una separazione tra scuola e lavoro. Negli ultimi anni si è cercato di fare qualcosa con gli stages, ma non basta. Bisogna far capire ai giovani che lavorare non è una vergogna e non è una alternativa allo studio perché anche lo studio è lavoro e anche il lavoro deve diventare studio. Bisogna perciò cambiare i programmi e i metodi di insegnamento che sono di tipo elitario. Terzo: bisogna realizzare il modello di sussidiarietà circolare, cioè un modello di rapporto strategico e organico e non estemporaneo tra enti pubblici, mondo delle imprese e mondo del terzo settore. La realizzazione di queste tre condizioni può garantire la flessibilità in ingresso e di conseguenza rendere naturale, ovvero accettata dai lavoratori, quella in uscita».

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