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Disabile e vincente

Intervista ad Alex Zanardi. L'ex pilota si è appena aggiudicato la Maratona di New York in handbike

di Lorenzo Alvaro

 

Domenica 23 ottobre: primo alla maratona di Venezia. Domenica 6 novembre: primo alla maratona di New York. Sempre in versione handbike. Non c’è che dire, malgrado due gambe in meno Alex Zanardi il talento non lo ha perso. Anzi paradossalmente forse ha guadagnato qualcosa. L’impresa nella Grande Mela gli ha regalato la prima pagina del “New York Times”. Una cosa impensabile nella sua prima vita da pilota, conclusasi nel 2001 in un drammatico incidente sulla pista tedesca EuroSpeedway di Lausitz, durante una gara valida per il campionato Indycar. E dire che tutto poteva svanire per colpa del salto della catena della sua bicicletta a mano: «Me la sono vista brutta, mancavano 700 metri al traguardo, ma avendo la catena a portata di mano, ci ho messo un attimo a rimontarla». E così, in volata l’americano Dane Pilon e il polacco Rafal Wilk non hanno avuto scampo.

A Venezia ha lasciato il traguardo a Francesco Canali, un ragazzo malato di Sla. Per Pilon e Wilk invece non ha avuto alcun riguardo…
È stato un gesto, una mia scelta, presa a pelle all’ultimo istante. In Laguna ho voluto tagliare il traguardo uno a fianco all’altro. Non volevo essere primo da solo. A New York era diverso: Credo che Pilon non abbia nulla di meno di me per battermi. Se l’ho spuntata io è perché mi sono allenato.

Come si diventa un handbiker?
Dopo l’incidente ho ricominciato a correre in auto. E la handbike è sempre stato un buon coadiuvante per gli allenamenti. Mi serviva per tenermi in forma. Poi nel corso delle ultime stagioni non sono arrivate grandi proposte motoristiche. Sono di bocca buona, grazie a Dio in vita mia ho sempre avuto tanti cavalli dietro la schiena e guidato macchine fantastiche. Non mi hanno chiesto di correre in Formula1 e non volevo accontentarmi di un campionato nazionale con la Bmw. Cosi mi sono buttato sulle bici. È andata bene. Mi sono qualificato per le Olimpiadi di Londra e sono primo nel ranking mondiale in coabitazione con un atleta belga.

A Londra punta a una medaglia?
Non è che posso gareggiare per arrivare secondo. Me lo ha insegnato lo sport. Se dai il massimo poi il risultato ti soddisfa. Ma devi essere lì per provare a vincere.

Una mentalità che è stata rafforzata dall’invalidità?

Sì, nel senso che ha trovato applicazione ancora più efficace. Perché se è vero che nella vita normale tante cose le puoi fare in maniera alternativa, nello sport, quando ti manca qualcosa, le alternative si riducono. Il risultato che ottieni spesso assomiglia molto al sogno che ti aveva guidato in quella direzione ma magari è diverso da quello che avevi in mente. Da bimbo volevo guidare una macchina rossa. E l’ho trovata, non era la Ferrari in Formula1, ma una Indycar. Sul mio letto di ospedale a Berlino sognavo di tornare ad una vita normale, che fosse anche capace di darmi delle soddisfazioni. Il tutto è avvenuto in modo abbastanza preciso. Sono tornato a portare mio figlio sulle spalle e a guidare…

L’intervista è sul numero di Vita  in edicola (in allegato la copertina)

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