Salute

Qui Rio de Janeiro la luna di Adel batterà l’Aids

Nel '96 la Banca mondiale aveva stimato che il Brasile nel 2000 avrebbe avuto 1,2 milioni di sieropositivi. Oggi nei fatti sono la metà.

di Redazione

Èuna giornata come tante, all’ospedale Raphael de Paula Souza, un casermone di gesso dipinto di blu alla periferia di Rio de Janeiro. E come fa spesso, Adelmildes Navarini, direttrice del reparto Aids, disegna soli e lune sulle scatole delle pillole che ha preparato per i suoi pazienti. Il primo è Rogério, 26 anni, che ha la tubercolosi oltre che l’Aids e soffre di toxoplasmosi, un’infezione al cervello. Segue Jerdinete, una donna di 46 anni che un anno fa è entrata in ospedale per problemi di stomaco e ha scoperto di avere il virus. Dopo di lei c’è Maura, sieropositiva, con Emerson, il suo bimbo di sette anni che probabilmente è infetto dalla nascita.
Se Rogério, Jardinete ed Emerson vivessero in un qualunque altro Paese povero, il loro destino sarebbe segnato. Ma stamattina sono al Raphael de Paila Souza, e da qui ogni paziente se ne va con un sacchetto di plastica pieno di antiretrovirali: Azt, ddI, inibitori della proteasi e altri componenti dei cocktail di farmaci che, per i ricchi, hanno trasformato l’Aids in una malattia cronica. Sulle scatole di ogni pillola ci sono i soli e le lune disegnati dalla dottoressa Navarini, così i suoi pazienti sanno quali devono prendere alla sera e quali alla mattina. Anche lei è fortunata a vivere qui, in qualunque altro Paese povero avrebbe dovuto limitarsi a stringere loro la mano e guardarli morire. A Rio de Janeiro, invece, può curarli.
Dal 1997, in Brasile, ogni malato di Aids riceve, gratis, il cocktail di tre farmaci che tiene in vita i ricchi americani. Alla faccia di tutte le teorie sul fatto che i Paesi in via di sviluppo non sono in grado di curare questo virus. Sistemi sanitari troppo fragili? Su un piano di assistenza pubblico traballante, il Brasile è riuscito a creare una buona rete di cliniche specializzate nell’Hiv. Le persone con scarsa educazione non riescono a seguire il complicato regime delle pillole? I malati brasiliani hanno dimostrato di saper seguire la terapia tanto quanto i pazienti americani ed europei. Curare l’Aids costa troppo? Il piano sanitario del Brasile non ha bisogno di fondi esterni: l’anno scorso il ministero della Salute ha speso 444 milioni di dollari in medicinali anti Hiv, il 4% del suo budget. E funziona benissimo: nel 1994 la Banca Mondiale stimò che nel 2000 il Paese avrebbe avuto almeno 1, 2 milioni di sieropositivi, oggi sono meno della metà. L’epidemia si è stabilizzata con 20 mila nuovi casi l’anno. Il tasso di morte per Aids è stato ridotto del 50%. Fra il 1997 e il 1999 la diminuzione dei ricoveri ospedalieri per Hiv ha fatto risparmiare al ministero della salute 422 milioni di dollari e ciascun malato ha solo un quarto di possibilità rispetto a prima di finire in ospedale.
Il segreto di questo successo? Il Brasile può permettersi di curare l’epidemia perché non paga il prezzo di mercato per i farmaci antiretrovirali e perché, nel 1998, ha iniziato a produrre copie generiche dei farmaci occidentali abbattendo il loro costo del 79%. Ma, soprattutto, perché ha avuto la volontà politica di farlo. Fin dal 1996, quando José Sarney, il primo presidente non militare del Brasile, viene a sapere che alla conferenza mondiale sull’Aids di Vancouver è stato dimostrato il potere dei cocktail di farmaci e decide che anche il suo popolo deve avere il diritto di tenere sotto controllo il virus. Immediatamente propone una legge che garantisca a tutti i malati le cure più aggiornate. Quindi lancia un programma di prevenzione finanziato dalla Banca Mondiale in cui centinaia di attivisti vengono incaricati di distribuire milioni di preservativi.
Risultato: oggi il suo Paese produce una triterapia per 3mila dollari l’anno. Il 40% dei farmaci generici che prendono i sieropositivi brasiliani provengono dalla Far-Manguinhos, un laboratorio di ricerca farmaceutica del governo che la dottoressa Eloan Pinhero dirige alla periferia di Rio de Janeiro. Senza violare in alcun modo gli accordi Trips sui brevetti e sulla proprietà intellettuale dell’Organizzazione m mondiale del commercio, che in Brasile sono entrate in vigore nel 1997. Consentendo, dunque, al governo di produrre copie generiche di tutti i farmaci hiv registrati nei Paesi ricchi prima di quella data. Nonostante questo, a gennaio gli Stati Uniti hanno denunciato il Brasile davanti a una speciale commissione disciplinare dell’Organizzazione mondiale del commercio, salvo poi ritirare l’accusa un mese fa. Perché insostenibile. Nel 1999, il programma anti Aids brasiliano ha condotto uno studio su più di mille pazienti a San Paolo per stabilire il livello di aderenza alle terapie. Risultato: il 69% dei malati è risultato prendere le medicine nel modo giusto l’80% delle volte. Secondo Margaret Chesney, professoressa dell’Università della California che studia il fattore comportamento nella lotta all’Aids, questa percentuale non è sufficiente per controllare il virus. Ma, di fatto, l’80% di aderenza alle terapie è la stessa percentuale degli Stati Uniti.
La preoccupazione dei Paesi industrializzati che i sieropositivi poveri non fossero capaci di prendere le terapie si è quindi rivelata infondata. Certo, i governi che danno ai malati di Aids farmaci anti retrovirali devono anche insegnare loro come prenderli. Ma il caso del Brasile dimostra che non ci vogliono lauree o laboratori super attrezzati, bastano i soli e le lune che i medici e le infermiere dell’ospedale Raphael de Paula Souza disegnano senza sosta sui blister di pillole. E una grande determinazione a insegnare ai pazienti che è la loro voglia di vivere, e quindi di rispettare la terapia, la medicina essenziale.
«L’aderenza alle terapie è proporzionale alla qualità del servizio prodotto», spiega Paulo Teixeira, direttore del programma Aids. «Chi vive in situazioni economiche difficili ovviamente ha più problemi, ma si possono superare offrendo ai malati il miglior servizio possibile». Qualche esempio? I responsabili del programma Aids dedicano molto tempo al training psicologico delle persone che lavorano con i pazienti. In tutto il Paese chi ha l’Hiv può viaggiare gratis sugli autobus. Le cliniche per l’Aids lavorano a contatto con le chiese e i Lions Club raccogliendo vesti e cibo per i malati in difficoltà e assumono sieropositivi per sedere nelle sale d’attesa e parlare con gli altri pazienti, formando gruppi di auto aiuto. Ad aiutare chi ha l’Aids in corpo, in Brasile sono coinvolti anche gli assistenti sociali. Per Rosa Maria Rezende, che svolge questa lavoro in una clinica di Nova Iguaçu, la cosa più difficile è convincere i pazienti dell’importanza di non saltare gli appuntamenti con i dottori. «Quando ci rendiamo conto che un malato non viene più in ospedale, gli mandiamo un telegramma chiedendo di venirci a trovare e spiegare perché ha smesso le visite».
Oggi milioni di sieropositivi vivono in nazioni che potrebbero seguire l’esempio del Brasile. Con un piccolo aiuto della comunità internazionale, tutti i Paesi dell’America Latina e dell’Europa dell’Est, una gran parte dell’Asia e dell’ex Unione Sovietica e almeno 10 nazioni dell’Africa Subshariana potrebbero tenere in vita i loro malati. Cominciando dalla spesa. Sembra assurdo suggerire che un Paese che non ha 10 cents per curare un bambino con la diarrea spenda migliaia di dollari per i farmaci della sua mamma sieropositiva. Eppure il Brasile insegna che l’investimento paga: oltre a far risparmiare il ministero della Salute, il programma Aids ha creato nuove strutture in cui curare anche altre malattie.
Nessun morto per Aids muore di morte naturale. Le vittime di questa malattia sono, prima di tutto, vittime di politici che preferiscono spendere in armi che in medicine. Poi dei Paesi ricchi che fanno causa ai poveri se tentano di produrre farmaci generici. E vittime delle multinazionali, che vendono i retrovirali con lo stesso prezzo a Calcutta e New York.

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