Cultura
Il peccato terminale di Italo Calvino
Walter Mariotti, giornalista, direttore del mensile Campus, rilegge Se una notte d'inverno un viaggiatore, «celebrazione di un ego smisurato»
Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: “No, non voglio vedere la televisione!”. Alza la voce, se no non ti sentono: “Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!” Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo piú forte, grida: “Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!” O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace».
Cominciava così il più arrogante, inutile, autoreferenziale, trombonesco e clericale libro di uno dei più celebrati autori del Novecento italiano, Calvino. Un neoilluminista inquieto, un razionalista tenace, un istrione scettico e ironico. Ma soprattutto un narratore laico che, come scrisse Geno Pampaloni, fu per quasi mezzo secolo «una presenza indispensabile della nostra cultura, un punto di riferimento sollecitante e rassicurante al tempo stesso».
Forse, ma non in quel libro. Se infatti dopo aver abbandonato la letteratura militante (grazie a Vittorini e ai fatti d’Ungheria) Calvino sfidò “il labirinto”, cercando soluzioni razionali e laiche ai problemi dell’uomo o almeno di “un ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine”, nell’assurda speranza di “saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, se attraversò il realismo magico della trilogia degli antenati e raggiunse il culmine nella dimensione combinatorio-strutturalista (Le cosmicomiche, 1965; Ti con zero, 1967; Il castello e La taverna dei destini incrociati ,1969 e 1973; Le città invisibili, 1972), in quel libro Calvino smise di essere uno scrittore. Per sempre.
Innamorato senza speranza di Barthes, Lacan, Levis Strauss e Queneau si bevve tutte le panzane dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle) smettendo di scrivere perché «scrivere non consiste più nel raccontare, ma nel dire che si racconta».
Più elaborato che originale, più divertito che divertente, sempre centripeto e mai e poi mai centrifugo Se una notte d’inverno un viaggiatore è l’insieme dei luoghi comuni dell’élite sinistrorsa tardosessantottesca, che discetta sull’orlo del baratro schifata dalla televisione e dalla stupidità delle masse. Lontano anni luce dalla “mise en abyme” del gioco letterario, dallo svelamento dei trucchi e delle trappole della scrittura, quel libro che il lettore “aveva fatto bene ” a comprare era la celebrazione di un ego ormai smisurato, un monumento concentrico al proprio narcisismo tramite un osanna globale di un nichilismo sostanziale. Certo: Calvino finisce per distruggere l’autore tradizionale, quel «fantasma dai mille volti e senza volto», che dietro ogni libro «garantisce una verità a quel mondo di fantasmi e d’invenzioni» che fanno la letteratura più vera della realtà. Ma in questo gelido «romanzo della teoria del romanzo», in questo spettrale ipertesto antelitteram smarrisce anche la sua dote letteraria che ne aveva fatto un mito: l’umanità, la forza di aggancio con il reale anche attraverso il surreale.
Partito alla ricerca di un’uscita dal labirinto della vita, di un senso qualsiasi all’esperienza umana, Calvino finisce per imprigionarci l’uomo. Condannandolo a un’odissea senza fine, dove non c’è posto né per l’uomo né per Dio.
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