Mondo

La presa di Tripoli in diretta

Il racconto dei primi giorni, insieme ai ribelli, nella capitale libica

di Michela A. G. Iaccarino

TRIPOLI – Lo dice la stampa internazionale: “Fin d’un cauchemar, début d’une épopée”. Fine di un incubo, inizio di un’epoca. È il titolo della “Presse de Tunisie” quando attraversi il confine verso quella che qui tutti chiamano “una nuova terra”. In questi luoghi – negli ultimi sei mesi di rivoluzione – sono improvvisamente trascorsi 41 anni di dittatura. La morte di migliaia rimarrà coniugata al singolare: morte senza cifre, senza numeri di bilancio. Nadar Youset ha 30 anni e ha studiato letteratura in America. Adesso è il comandante della brigata del confine di Dhaibat. Una volta varcato il confine tunisino ti stringe la mano e sorride sotto la scritta “Benvenuti nella nuova Libia, Paese libero”.

Sulla scrivania del check point ci sono un pc, un fucile e un detonatore. Nel Paese della rivoluzione del tricolore che ha rinnegato il verde gheddafiano, la prima cosa che dice è: «Sono finalmente fiero di essere libico». Odore di baguette, mattoni per le case in costruzione, perfino un negozio aperto: il territorio al confine meridionale è completamente conquistato.

Verso Tarablus (Tripoli), dove i paesi hanno un nome prerivoluzionario e un nuovo battesimo postrivoluzionario, (da Wazen a Gabl Nafossa), se la strada è libera dai gheddafiani la parola dei ribelli ai check point, costruiti con container o carcasse di auto bruciate, è «Mia»: cento per cento, territorio pulito. Le scritte colorate sui muri sono in arabo e in inglese: «We win, we die, free Lybia, we don’t surrender». Viveva a Tripoli, prima di questa guerra, un milione di persone. Ora ogni casa è crivellata di colpi, da ogni finestra sventola il nuovo tricolore con la mezzaluna. I viveri scarseggiano, ma non mancano. Se la verdura abbonda, carne e pesce sono quasi impossibili da comprare. Da giorni mancano acqua ed elettricità. Internet, incubatore della primavera araba, è inattivo da sei mesi nell’estate del penultimo bastione africano. Ma niente ha fermato la protesta di questo popolo. 

Il fischio delle bombe
«Qui tutto era suo, della sua famiglia, dei suoi fedelissimi». Randa ha 18 anni, studia a Tripoli, bada a sette fratelli e ogni giorno va in moschea a pregare. «Quando tutto questo sarà finito verrò lì»: senti giurare questa promessa al futuro ogni volta che viene pronunciata la parola Italia. «C’est finis, Gheddafi c’est oublié, Gheddafi halas», è finita, Gheddafi è già dimenticato, passato per sempre. Moulei Mohammed, imam di una delle moschee di Tripoli, ha 52 anni. Non ha mai smesso di cantare, neppure quando le mitragliate nella notte erano continue, quando l’eco delle bombe preannunciava la fine della capitale. A volte erano colpi solitari, a volte incessanti. Adesso le strade della città sono un cimitero di bossoli, un tappeto di cartucce di produzione italiana e russa.

La gente però ricomincia ad uscire, alzando ad ogni sconosciuto a vista le due dita in segno di vittoria, non più terrorizzata dai rastrellamenti della guerriglia urbana. 17 in Libia è il numero della fortuna: ci sono in giro già magliette e ciondoli per ricordare la data di inizio della lotta di liberazione, il giorno della rabbia, lo scorso 17 febbraio. 41 invece è il numero bruciato sui manifesti della città: il Colonnello non festeggerà il suo prossimo anniversario, a inizio settembre. Di Bab al-Azizia, il suo compound, non rimangono che rovine. Di lui non rimane che il volto, sfigurato sui manifesti a colpi di kalashnikov.

[ … ]

Continua a leggere il reportage sul settimanale in edicola oppure online (per i soli abbonati)

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.