Mondo

Elia Valori: «Il punto di riferimento è il Quirinale»

Parla il presidente de La Centrale Finanziaria Generale

di Marco Dotti

«Pour le dire simplement: l’Europe manque encore de crédibilité», così scriveva ieri, con una certa brutalità, Pierre-Henri Thomas, sul quotidiano belga francofono “Le Soir”. Questa crisi, osserva Thomas,  «prend sa source dans le manque flagrant d’esprit de solidarité entre pays». L’Europa, in sostanza, mancherebbe di coesione. Anche dicoesione ideale. È come se, per effetto della globalizzazione finanziaria e in conseguenza della precarizzazione di quelle medesime istituzioni che avrebbero dovuto governarne i flussi, ci trovassimo per la prima volta nella “nostra” storia recente a fare i conti con il rischio concreto di un effetto domino che potrebbe travolgere i luoghi, ossia l’intero assetto sociale, economico e politico europeo. I dati di chiusura delle Borse, lungi dall’essere confinabili in astrusi discorsi sul panic selling, sono indicatori di una crisi ben più profonda e di sistema: Londra ha perso il 3,43%, Parigi il 3,90% , Francoforte il 3,4%, mentre a Milano l’indice Ftse Mib è andato in tilt, prima di segnare il record negativo del 5,16%. Limitando il campo di osservazione alla sola situazione “interna” del nostro Paese, nota  Giancarlo Elia Valori, Presidente de La Centrale Finanziaria Generale, docente di relazioni internazioni all’Università di Pechino, profondo conoscitore delle dinamiche istituzionali e autore del recente Petrolio(Excelsior 1881, Milano 2011), la situazione non cambia. Valori osserva che, ben oltre la «bieca polemica innestata contro di lui, in Parlamento, da politici di comprovata inconsistenza» potremmo leggere proprio in questa chiave allargata, di sistema, le recenti preoccupazioni del Capo dello Stato. Il richiamo alla “coesione nazionale” diventa quindi occasione per riflettere sul necessario e oramai ineludibile passaggio che possa trasformarci da spettatori  – l’ennesima – di quelle “rivoluzioni passive” cui accennava Gramsci, ma condurci oltre le derive di un leaderismo mediatico oramai privo di aura e di carisma. Una coesione che riconcili finalmente la politica con i luoghi, le priorità e le forme della politica  stessa.

Vista l’entità della crisi europea, un’Italia non coesa rischia concretamente il tracollo. Tornano alla mente le parole di Nietzsche: siamo tutti nella stessa barca, ma ognuno rema per conto proprio. Come sottrarsi alla corrente?

Giancarlo Elia Valori: Bisogna prima di tutto comprendere che la crisi strutturale della politica, in Italia come altrove nel Vecchio Continente e in USA, ha portato alla luce  due elementi. Primo elemento, la “coesione nazionale”, come la chiama il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, messa a rischio dalle nuove disuguaglianze economiche interne, e tale da mettere in crisi la stessa unità delle nazioni. Secondo elemento, la nuova distribuzione del potere tra gli organi costituzionali, sia in Italia che negli altri Paesi occidentali. Se i nosti Padri Costituenti vollero, per dimenticare del tutto il Ventennio fascista, una Presidenza della Repubblica basata sul criterio della “difesa della Carta” e della supervisione dell’Ordinamento, in linea con l’idea di Hans Kelsen, che ipotizzava un sistema costituzionale formalmente coerente e tale da auto correggersi, oggi la Presidenza della Repubblica di Giorgio Napolitano è, di fatto, l’inizio di una felice supplenza riguardo alla carenza strutturale di potere degli altri organi costituzionali, che ormai, e non è qui il caso di analizzarne i motivi, sono in stabile contrasto tra di loro e al loro interno. Gli Esecutivi deboli sono tali indipendentemente dalle maggioranze parlamentari che li eleggono, e gli Organi semi-elettivi previsti dalla Costituzione Repubblicana operano su materie e con criteri che i Padri del 1948 non potevano prevedere e normare.

Tra le principali critiche mosse in questo quindicennio alla classe politica italiana, c’è però quella di avere supinamente accolto ciò che già Jacob Talmon chiamava la deriva plebiscitaria della democrazia. In nome di uno sfrenato leaderismo, si sono persi di vista i principi etici, i fini sociali e proprio quel esprit de solidarité che oggi mette a rischio la stessa Europa…

Giancarlo Elia Valori: Ricordiamoci che il potere carismatico non è solo quello del leadernato dalle folle e sostenuto dai mass media. Il vero carisma politico e personale è quello derivante dalle capacità culturali, di sintesi intellettuale. Oggi più che mai, vista la situazione, avvertiamo la necessità di un “carisma democratico”, carisma di cui già parlava Max Weber in Economia e Società. Questo carisma è incarnato dall’ascendente che una figura come il Presidente Napolitano manifesta sia sulle classi dirigenti che sul popolo, e nello stesso modo. Certamente, come è emerso anche nel discorso tenuto dal Presidente della Repubblica a Zagabria, la questione che Egli ritiene essenziale è quella della “coesione nazionale”. Che vuol dire, in primo luogo, che il federalismo si fonda e si sostiene su una riaffermata unità nazionale dell’Italia, che nasce plurale e unita allo stesso modo, e in tutte le fasi della sua storia unitaria e nel Risorgimento, si pensi qui alla lezione unitaria di un federalista come Carlo Cattaneo, e che la “coesione nazionale” riguarda anche i nuovi dislivelli di censo, di classe sociale, di accesso ai servizi e al mercato del lavoro, oltre che il rapporto, ormai evidente a tutti, tra popolazione immigrata dai Paesi africani e orientali e il popolo italiano. Temi che si intersecano tra di loro, e che il Presidente Napolitano legge, con lucida correttezza, anche sulla base della sua cultura e tradizione politica.

L’obiezione facile è che, in un gioco a somma zero, ossia con risorse limitate e scarse, se redistribuisco da una parte, devo togliere dall’altra. Pare invece si stia verificando – anche qui, in ogni campo – quello che già negli anni ’60 il sociologo della Columbia University, Robert K. Merton, chiamava un Effetto San Matteo (Matthew effect) secondo il principio del «the rich get richer and the poor get poorer». Un principio dagli effetti sociali deflagranti, in un contesto come quello attuale…

Giancarlo Elia Valori: È facile operare politiche inclusive quando, come in quelli che un economista francese chiamò i “trenta gloriosi” anni dal 1950 all’inizio degli ’80, vi è sempre da distribuire una nuova quota aggiuntiva di quanto Marx chiamava “plusprodotto”, ma ogni politica di coesione tende a saltare quando il criterio cardine delle economie occidentali è quello della “decrescita”. E, soprattutto, quando la decrescita dell’Europa e degli USA coincide con la crescita, spesso tumultuosa, dei nuovi Paesi che chiamavamo “in via di sviluppo” fino a pochi anni fa. Brasile, Cina, Federazione Russa, India stanno giocando al gioco della globalizzazione attirando le industrie manifatturiere “mature” che in Occidente farebbero fatica a mantenere margini di profitto accettabili, e acquisiscono in questo modo, con una stretta sui salari che da noi sarebbe socialmente improponibile, una quota di surplus finanziario che possono inserire nei mercati finanziari globali, come la Cina delle “Quattro Modernizzazioni” ha cominciato a fare fin dall’epoca di Deng Xiaoping e la Russia dalla Prima Presidenza di Vladimir Vladimirovic Putin. Il Presidente Napolitano, anche come Capo Supremo delle Forze Armate, ha ben chiaro questo quadro globale, ed ha saputo finora operare per una politica economica estera che tende a difendere l’Italia dagli effetti negativi, e potenzialmente distruttivi, che la globalizzazione sta avendo nel nostro Paese. Sarebbe bene, quindi, che anche gli altri organi politici costituzionali riuscissero a leggere, nel medio e lungo periodo, il nesso tra difesa della Costituzione, presenza di pace dei nostri militari all’estero, tutela degli interessi geoeconomici italiani ed europei in tutto il mondo. Inoltre, nella visione di Giorgio Napolitano, la questione della ripresa economica, strettamente legata a quella della “coesione nazionale”, è un tema che riguarda principalmente oggi la tutela della legalità dei mercati economici e finanziari.

Lei ha fatto cenno alla legalità dei mercati. Oggi, però, è assai difficoltoso distinguere l’economia lecita da quella illecita, e questo pare minare ancora di più il terreno alla possibilità di realizzare quella coesione sociale. Lo mina perché l’illegalità pesa, soprattutto sugli strati “bassi” della popolazione, riportando, anche se in termini non autoevidenti, gli standard minimi di vita al periodo del pre-Boom economico…

Giancarlo Elia Valori: Non è affatto un caso che, nel suo primo discorso da Presidente, Giorgio Napolitano abbia citato con passione la questione delle morti sul lavoro. Giocare al ribasso con il salario e la protezione sociale dei lavoratori vuol dire giocare lo stesso gioco dei Paesi già “in via di sviluppo”, ed è un gioco che noi non potremo mai vincere. Von Hayek, il grande economista liberista, citava spesso come, malgrado le note di Marx e degli economisti manchesteriani, il salario medio della prima industrializzazione inglese fosse maggiore di quello del vecchio proletariato industriale, e questo aveva garantito alla nuova classe operaia sia l’inizio di forme di autorganizzazione e tutela che la stabilità dell’accumulazione primitiva capitalistica. È quello che sta succedendo nei nuovi Paesi dell’ex “Terzo Mondo”. Ma l’Italia ha avuto la sua accumulazione primitiva proprio in correlazione storica con l’Unità Nazionale, che ha garantito per la prima volta un mercato sufficientemente ampio per i beni prodotti dalle industrie del Nord. E, come ricordava Rosario Romeo, non fu a spese dell’agricoltura del sud, come invece riteneva Antonio Gramsci, che si realizzò la crescita economica dell’Italia unita, ma fu vero soprattutto il contrario. Oggi il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che conosce bene la storia economica e il nostro Risorgimento, si trova di fronte a problemi simili a quelli di fronte ai quali si trovò una figura a lui per molti versi simile, Camillo Benso conte di Cavour. Unità nazionale per crescere in modo vistuoso e per diminuire il dislivello che ancora permane tra il Nord e il Sud d’Italia, sapendo bene che le due parti del nostro Paese simul stabunt aut simul cadent. È a questo punto che occorre inserire la questione della criminalità organizzata e del suo crescente rilievo economico. Mafia, camorra e ‘ndrangheta impoveriscono i territori nei quali operano, creano occasioni favorevoli solo alla rendita improduttiva, deformano in modo pesante il mercato, insularizzano le economie, legali omeno, nelle quali si trovano ad operare. Con una battuta ironica, si potrebbe dire che le organizzazioni criminali operano, sul territorio, una loro versione di secessione dai poteri centrali e dall’economia nazionale. Da questo punto di vista, l’opera del Presidente della Repubblica è essenziale poiché, non limitandosi più al ruolo che alcuni Costituenti volevano per il Quirinale, quella di un “notaio” della Nazione, ed è paradossale che tra questi teorici della funzione notarile del Presidente vi fosse anche Palmiro Togliatti, Giorgio Napolitano inserisce nella sua attività istituzionale proprio quello che manca ad altri Organi dello Stato e alle assemblee elettive: lo “sguardo lungo”, la capacità di vedere lontano ed oltre, di non essere legati, come diceva degli animali Nietzsche nella sua “Seconda Inattuale”, al piolo dell’istante.

Questo è possibile perché non è sottoposto al plebiscito di ogni giorno rappresentato da quei sondaggi, quelle macchiettistiche comparsate televisive, quegli indici di gradimento e ascolto che, come simulacri, oggi più che mai hanno sostituito i luoghi della rappresentanza e forse anche della decisione…

Giancarlo Elia Valori: Se le classi politiche, nei paesi occidentali contemporanei, si formano sulla base di un corto circuito tra i desiderata dell’elettorato e i programmi politici, il Presidente Napolitano, proprio sulla base della sua cultura ed esperienza politica, riesce ad essere carismatico ed essenziale proprio quando stimola il governo, l’opposizione, la stessa opinione pubblica a guardare oltre il naso degli interessi del momento e a elaborare un progetto credibile per il lungo periodo, una sorta di “coesione concettuale (e nazionale)” tra potenzialità e realtà, tra potenza e atto, per riprendere una formula cara alla filosofia aristotelica e al pensiero di un autore che certamente Giorgio Napolitano conosce molto bene, Benedetto Croce. È questo uno dei fondamenti del suo carisma e della sua naturale autorevolezza che il Presidente, gentiluomo di antico stampo, sa dosare senza mai essere autoritario o debole. Si parlava, poco fa, del suo ruolo essenziale nella politica estera italiana. Giorgio Napolitano ha ben chiari due punti che l’Italia sta cercando, in qualche caso, di dimenticare: l’ancoraggio all’Alleanza Atlantica, fonte di stabilità e pace anche e direi soprattutto dopo la fine della guerra fredda, e una correlazione economica, strategica e politica all’Unione Europea. Oggi, le classi politiche si selezionano sovrapponendosi ad altre agenzie che sono delegate alla tutela degli interessi legittimi: i sindacati, le associazioni, gli ordini professionali, le imprese, alcuni corpi dello Stato. Una situazione pericolosa per la nostra democrazia e che Giorgio Napolitano ha spesso notato con disappunto. È una tendenza operante in tutto l’Occidente, alla quale si contrappone la depoliticizzazione del dibattito politico, ormai spesso legato a questioni valoriali, etiche o identitarie, che non sono per loro natura mediabili, e alla presenza fortissima delle tecniche, dei criteri, degli apparati dei mass media nella formazione e nella definizione dell’agire politico. Due tendenze forse inevitabili, nel mondo contemporaneo, ma pericolose e potenzialmente distruttive della democrazia parlamentare rappresentativa come l’abbiamo conosciuta dalla Carta Costituzionale francese del 1791 ad oggi. Qui, nell’ottica di Giorgio Napolitano, la questione non riguarda solo questo o quel politico o leader di partito, ma la stessa formazione della volontà e dei programmi degli elettori, e sarebbe una grave diminutio nelle posizioni del Presidente della Repubblica una scelta punitiva solo per alcuni politici.

Siamo di fronte a una svolta, anche sul tema del federalismo… Dopo il – più o meno pasticciato, più o meno rispondente ai “fatti” – trasferimento dei ministeri al nord (così, almeno, ci è stato venduto da una forza politica molto interessata), il dado è tratto… Ma anche qui, è un dado che non sa cogliere il campo lungo del gioco. Quale, secondo Lei, la posta in gioco? Una riforma come tante ne abbiamo viste?

Giancarlo Elia Valori:  Serve, per prima cosa, una classe politica più qualificata e meno rissosa, la cessazione dei conflitti tra gli organi dello Stato, in parte ridefiniti nei loro ruoli e funzioni, ed è questa, oltre che la riforma già avvenuta del Titolo V della Costituzione, per il federalismo, la “Grande Riforma” che, mettendo in conto anche una nuova Italia federale, il nostro Paese dovrà intraprendere per modernizzarsi, anche nella sua economia. Un Paese che smette di correre dietro ai cicli “corti” dei mercati e non fa concorrenza all’ex-“terzo mondo”, una migliore selezione delle élites, politiche e non, una lunga e difficile fase, che avrà anche rilievo costituzionale, di “de-corporativizzazione” dell’Italia. Noi abbiamo, oggi, un paese che si comporta come le monadi di Leibniz, che non avevano “né porte né finestre”: ogni gruppo di potere, ogni corporazione, perfino organi supremi dello Stato si muovono l’uno autonomamente dall’altro, e spesso in concorrenza, talvolta sleale, tra di loro. Se il federalismo acuirà queste tensioni, è troppo presto per dirlo, ma in ogni caso Giorgio Napolitano ha, come spesso ha mostrato, una spiccata sensibilità per l’unità dello Stato, che è cosa diversa, ma fondante, dell’Unità della Nazione. E sarà questa nuova unità nazionale, questa nuova “coesione nazionale e sociale” a fornire quel progetto a lungo termine, quell’idea di Paese che, speriamo, il Presidente riuscirà a diffondere in tutta l’opinione pubblica.


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