Formazione

Istat, paura di povertà

Donne e giovani penalizzati dalla crisi, rapporto impietoso

di Franco Bomprezzi

Uscire dalla crisi e non accorgersene, perché nel frattempo le conseguenze economiche e sociali si sono fatte sentire pesantemente: un italiano su quattro è sulla soglia della povertà. La fotografia Istat sullo stato del Paese è un documento importante e i quotidiani oggi se ne accorgono, anche se travolti dalla tempesta mediatica attorno alle elezioni amministrative.

“Giovani e donne penalizzati dalla crescita lenta. Più alto il rischio povertà”: sceglie questo titolo a centro pagina in prima il CORRIERE DELLA SERA per parlare del rapporto Istat. La notizia: circa 15 milioni di cittadini (un italiano su quattro) «sperimentano il rischio di povertà o di esclusione sociale» . Lo rivela il Rapporto annuale dell’Istat . Nel decennio 2001-2010 l’Italia è il Paese che è cresciuto meno di tutti nella Ue. I giovani hanno perso mezzo milione di posti di lavoro in due anni. Penalizzate anche le donne, gravate da compiti sempre più «insostenibili»” . I servizi da pagina 12 a pagina 14. Appena sotto, parte dalla prima anche l’analisi di Dario Di Vico sul lavoro femminile: “Le centrocampiste del welfare”, che prosegue a pagina 42. “Cibo, cure, casa: un italiano su quattro è a rischio povertà” è il titolo che apre pagina 12. Scrive Alessandra Arachi: “Nel 2010 il 5,5 per cento degli italiani ha dichiarato di non aver avuto i soldi per comprare il cibo. L’ 11 per cento ha dovuto privarsi delle medicine. Il 17 per cento non ha trovato soldi per i vestiti, mentre oltre il 16 per cento ha dovuto intaccare i risparmi oppure contrarre debiti per arrivare alla fine del mese. Quasi un italiano su due (il 47,8 per cento) giudica pesanti i semplici oneri per la propria abitazione e un italiano su cinque dichiara di aver risparmiato meno dell’anno precedente. Donne pilastri e bersagli Se non ci fossero le donne non potrebbero sopravvivere le famiglie: secondo l’Istat, infatti, è a loro carico ben il 76,2 per cento del lavoro familiare. Merito loro anche l’aiuto informale di assistenza e cura: ogni anno svolgono in questo senso 2,1 miliardi di ore. Eppure il mondo del lavoro invece che premiare questo prezioso contributo femminile, lo penalizza. Più di una donna su cinque, infatti, sostiene di aver perso il lavoro per motivi familiari, mentre oltre 800 mila donne sono state licenziate, o messe in condizione di doversi dimettere, a causa di una gravidanza”. Enrico Marro, a pagina 13, raccoglie il pensiero del ministro della Pubblica amministrazione: “Brunetta: «Ma il Paese ha tenuto Chi sta peggio? I commercianti»”. Un passaggio: “Negli ultimi due anni, 800 mila donne sono state costrette a lasciare il lavoro perché hanno avuto un figlio. Non la impressiona? «Non scopriamo oggi che il tasso di occupazione femminile in Italia è basso perché non ci sono servizi come gli asili nido. Il fenomeno è più acuto nel settore privato, soprattutto nelle piccole imprese. Non così nel pubblico impiego, dove le retribuzioni sono anche più alte»”. Ma andiamo all’analisi di Dario Di Vico, nella pagina delle Idee. Scrive Di Vico: “Grazie all’autorevolezza dell’Istat e del suo presidente si può cominciare a ragionare della condizione femminile come del «centrocampo» della società italiana. Qualsiasi intenditore di calcio sa bene che il centrocampo assolve una doppia funzione, di diga e di ripartenza. Così le donne in Italia oggi sono un argine al tracollo dello Stato sociale novecentesco ma al tempo stesso rappresentano la componente più motivata del mercato del lavoro. Questo doppio ruolo non può però essere assolto all’infinito e, se come sta avvenendo in Italia la crescita si muove alla velocità di una tartaruga, il centrocampo rischia di spezzarsi in due. Già negli anni scorsi, per la precisione tra il 2008 e il 2009, l’Istat ci segnala il verificarsi di un fenomeno che ha del clamoroso: ben 800 mila donne hanno dato le dimissioni in bianco dal loro posto di lavoro a causa dell’imminente maternità. Oggi sta accadendo qualcosa di analogo e rischiamo una nuova segregazione di genere. Le donne italiane sono costrette a farsi carico di quei compiti di assistenza e solidarietà che lo Stato non riesce ad assolvere, restano 12 punti sotto il tasso di occupazione delle loro colleghe europee e trovano come sbocco prevalente solo i mestieri non qualificati quali addetta alle pulizie, colf, badante e centralinista”. Interessanti le proposte che segnala il giornalista: “Un paio di proposte sono circolate di recente e possono rappresentare, quanto meno, un segnale di inversione di tendenza. Una risposta all’implicito appello dell’Istat. La prima è venuta dalla Banca d’Italia poche settimane fa ed è ampiamente realizzabile. Si tratta di rivedere il sistema degli assegni e delle detrazioni per carichi familiari e di rimodularli canalizzando le risorse in un credito di imposta finalizzato a incentivare l’occupazione femminile, in special modo delle madri. La seconda è stata avanzata sul sito www. ingenere. it da Chiara Martuscelli. In questo caso si propone di vincolare i risparmi, che si ottengono dall’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nella pubblica amministrazione, a politiche di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Il tesoretto previdenziale vale 3,7 miliardi di euro nel periodo 2010-2019 e successivamente 240 milioni l’anno. Bisognerebbe evitare che, come è accaduto nel 2010 e 2011, siano ancora utilizzati nel tritacarne delle manovre di finanza pubblica e abbiano invece un loro preciso target”.

“Istat: un italiano su 4 a rischio povertà”: LA REPUBBLICA sceglie il titolo centrale per riferire della rilevazione dell’istituto di ricerca statistica, cui dedica una doppia interna. «Non c’è più la crisi e non ce ne siamo nemmeno accorti», scrive Luisa Grion, «sulla carta l’Italia è un paese in ripresa, ma la sua crescita è stentata e il buio biennio che si è lasciato alle spalle ha minato i due pilastri che storicamente la distinguevano dagli altri partner europei: il risparmio e il welfare». È un’Italia affaticata quella fotografata dall’Istat, «un paese più vulnerabile» spiega Enrico Giovannini, presidente Istat, in cui tra 2009 e 2010 sono saltati 532mila posti di lavoro, in cui è crollato il potere d’acquisto, in cui quasi un quarto della popolazione vive sulla soglia della povertà. La crisi ha colpito soprattutto donne (800mila delle quali hanno dovuto lasciare il lavoro alla nascita di un figlio) e giovani (sono 2,1 milioni i neet, ovvero ragazzi scoraggiati che non studiano né cercano lavoro). L’approfondimento è appunto sui giovani: “Quei sedicenni annoiati che abbandonano la scuola così cresce la marea degli inattivi: 2,1 milioni” è il titolo del pezzo in cui Maria Novella De Luca descrive l’esistenza di questi adolescenti che «una mattina hanno deciso di non entrare più in classe». È il 18,8% dei giovani e si ritrova sperduto: «perché se è vero che il diploma conta poco, e la laurea poco di più, non averli vuol dire essere fuori, diventare invisibili, drop out». Ragazzi per i quali «la scuola ha perso completamente di significato» spiega Milena Santerini, docente di pedagogia alla Cattolica, «non capiscono più il senso di passare tanto tempo tra i banchi, tra professori che utilizzano un linguaggio anni luce lontano dal loro, in una società che anno dopo anno svaluta sempre di più il ruolo della cultura». «Siamo l’unico paese in Europa che in tempo di crisi ha tagliato sulla scuola», sottolinea un altro pedagogista, Benedetto Vertecchi, «e poi ci meravigliamo se gli studenti se ne vanno». Il commento è affidato a Chiara Saraceno: “Aumenta l’esercito dei senza futuro”. Nel rapporto Istat, «emerge ancora una volta il ruolo fondamentale giocato dalle famiglie, come ammortizzatore sociale a tutto campo. Ma emergono anche le tensioni, i punti di rottura, di un sistema troppo sovraccarico ed anche troppo squilibrato». Particolarmente delicata la situazione delle donne. «La catena della solidarietà femminile tra madri e figlie su cui è fondata la rete di aiuto informale rischia di spezzarsi. Le donne occupate con figli sono infatti sovraccariche per il lavoro di cura all’interno della famiglia e le nonne sono sempre più schiacciate tra cura dei nipoti, dei genitori anziani non autosufficienti e dei figli adulti che continuano a vivere con loro».

IL GIORNALE dedica in prima pagina, in taglio basso, un articolo di Giuseppe De Filippi “Parla l’Istat, arrivano gli sciacalli”. «Attenzione: i gufi non sono quelli dell’Istat ma certi lettori delle carte dell’Istituto di statistica. L’Istat fa i conti e le rilevazioni, li fa molto spesso, troppo fre­quentemente se volete, e li diffonde al­trettanto spesso, ma sono tutte scaden­ze già previste e messe in agenda. L’importante sarebbe un po’ saperli leggere quei dati e un po’ evitare di forzarli per scopi polemici», attacca il giornalista che in seguito specifica, «uno sente in giro le notizie sulla presentazione del rapporto, tra rischi di povertà, ripresa che stenta, lavoro che manca, e pensa: le famiglie saranno perlomeno depresse e al rilevatore dell’Istat che chiede informazioni utili per compilare l’indice di fiducia l’avranno preso a ceffoni. Bé, non proprio, stando sempre all’Istat almeno. Permettetemi un po’ di copia e incolla e promettete di leggere senza sbuffare le seguenti righe di linguaggio un po’ tecnico-statistico».Da qui De Filippi dimostra, citando il rapporto, come la situazione non sia quella dipinta dai giornali. «l’indice del clima di fiducia dei consumatori aumenta a 106,5 da 103,7 di aprile. Il miglioramento è diffuso a tutte le componenti della fiducia: l’indice relativo alla situazione personale degli intervistati sale da 118,8 a 121,5, quello sul quadro economico generale passa da 73,0 a 77,8. Salgono anche gli indici relativi al clima futuro (da 90,1 a 93,1) e corrente (da 114,8 a 117,4). Migliorano, in particolare, giudizi e previsioni sulla situazione economica del Paese e aspettative sull’evoluzione del mercato del lavoro». Tutto questo per dimostrare che «la fiera delle dichiarazioni ieri è partita dalla presentazione del rapporto Istat 2010, andandoci ovviamente a pescare, in un mare di analisi, solo quelle che, lette in modo forzato, potevano prestarsi allo scopo».

“Voto di povertà” con questo titolo di apertura IL MANIFESTO mette insieme i due temi portanti della prima pagina: il rapporto Istat e i ballottaggio per le amministrative. «Nella settimana dei ballottaggi di Milano e Napoli, arrivano i dati dell’ultimo rapporto Istat sull’Italia: quindici milioni di persone “sperimentano il rischio di povertà o di esclusione sociale”. Un valore del 23,1% superiore alla media dell’Unione europea. È la radiografia dell’Italia di Berlusconi, un paese invecchiato, degradato, impoverito. Un malgoverno che si accanisce sui giovani e le donne» riassume il sommario che rinvia alle pagine 2 e 3 che analizzano il rapporto. Sempre al rapporto Istat è dedicato l’editoriale di Loris Campetti: “Italia in ginocchio”. «Un paese invecchiato, sfibrato e sfiduciato. Un paese in ginocchio. È questa la radiografia dell’Italia berlusconizzata in cui crollano le aspettative di lavoro, i giovani cervelli fuggono all’estero, quelli che restano conducono una vita precaria sostenuta dai genitori che però stanno impoverendo. (…) Altro che luci e ombre, come goffamente sostiene, arrampicandosi su specchi insaponati, qualche pierino in forza al governo: l’Italia è al collasso, sempre più diseguale tra nord e sud e tra ricchi e poveri, tra uomini e donne e tra lavoratori (o aspiranti tali) indigeni e migranti. Certo, lo sapevamo, ce l’ha raccontato qualche mese fa Marco Revelli nel suo ultimo libro Poveri noi. Il fatto grave è che non si vede inversione di tendenza; (…)» Avvisa Campetti: «(…) Questa debacle che ci getta nel sottoscala dell’Europa non è tutto «merito» di Berlusconi, ma nessun altro sarebbe riuscito meglio del telepredicatore delle paure in questo miracolo al rovescio. (…) parlare di politica economica – per non dire industriale – è un eufemismo: Berlusconi lo sfrontato e Tremonti il contabile non hanno progetti per il paese, sanno solo tagliare, tutto tranne i sottosegretari, i capital games e i loro interessi. Siamo rimasti uno dei pochi paesi in cui parlare di reddito di cittadinanza è una bestemmia» e conclude: « (…) Finalmente dal paese qualche segnale di vita è arrivato: dai giovani, dagli operai e dagli studenti che portano in piazza la loro dignità, e dalle urne, domenica prossima, potrebbe arrivare un secondo segnale generale: l’Italia ha paura, sì, ma di Berlusconi ed è pronta a liberarsene». Pagina 2 si apre con il titolo “Italia povera e degradata”. In tre grandi box la storia di giovani “precari” la giornalista pagata in nero 10 euro a pezzo, l’operatrice di call center che rischia il posto perché l’azienda delocalizza in Albania e l’interinale all’Inps che a fine 2010 non è stato confermato e ora con altri colleghi ha il sussidio di disoccupazione. A pagina 3 viene intervistato il sociologo Ferarrotti che si chiede «Fino a quando reggeranno le famiglie?» e sul modo di considerare il lavoro avverte: « (…) Siamo cittadini europei, bisogna sapere le lingue europee e capire che la vecchia frattura tipicamente italiana tra lavoro intellettuale e lavoro manuale non ha più senso. Ogni attività lavorativa è degna, il lavoro non è merce, qui invece siamo in qualche modo condizionati dalla qualità del lavoro. Bisogna far cadere questi tabù. E capire che casa e bottega non è più possibile, che bisogna andare là dove c’è lavoro».

Rossella Bocciarelli firma il pezzo “Crescita insoddisfacente” su IL SOLE 24 ORE a pagina 17 con lancio in prima, accompagnato da infografica e due pezzi di appoggio sul tema della ricerca e dei contratti: «Vulnerabile, come chi sia uscito da una malattia – scrive la Bocciarelli – con le difese immunitarie basse e abbia un gran bisogno di ricostituenti, per evitare di stramazzare al prossimo raffreddore. Appare così il sistema Italia nel racconto che ne fa l’Istat, nel suo rapporto annuale 2010». E ancora: «Quanto al mercato del lavoro, nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di oltre 532mila unità di cui più della metà nel Mezzogiorno. I più fragili, come si sa, sono i giovani, mentre aumenta il fenomeno dei Neet (acronimo di “Not in education, employment or training”): nel 2010 erano 2,1 milioni in età compresa fra i 15 e i 29 anni. Ma molto complicata è anche la situazione delle donne: nel 2009, annota il rapporto, più di un quinto delle donne con meno di sessantacinque anni che lavorano o ha lavorato ha dichiarato di aver interrotto nell’arco della sua vita l’attività lavorativa per il matrimonio, la gravidanza o per motivi familiari». E conclude: «Aumenta intanto il sovraccarico del lavoro di cura in casa (le donne sotto i 44 anni che vivono in coppia lavorano in media, complessivamente, 9 ore e 8 minuti al giorno contro le 8 ore e 15 dei loro partner). Le più stressate, però, sono le nonne che in molti casi se la devono vedere con la cura dei nipotini insieme a quella di un genitore anziano e/o di qualche figlio adulto disoccupato». 

AVVENIRE apre con l’assemblea Cei e con la lucida analisi sui problemi del Paese del cardinale Bagnasco che chiede “Per l’Italia dialogo e fatti” (prolusione e servizi nelle prime 9 pagine del quotidiano). Bagnasco sostiene che «dalla crisi si esce con un soprassalto di responsabilità», parla della «parte sana, con tante forze positive all’opera che non vanno schiacciate» e indica come priorità famiglia, scuola e nuovi posti di lavoro. Al rapporto Istat e ai colpi della crisi è riservato invece un taglio medio intitolato “Povertà, una famiglia su quattro in bilico”. Gli approfondimenti nel Primo Piano alle pagine 10 e 11 registrano i dati del rapporto 2010 dell’Istituto statistico «che evoca uno scenario di “recessione sociale” per l’Italia. Difficile trovare un impiego, mentre si allarga la frattura tra chi sta bene e chi rimane indietro. La crisi ha aumentato la disoccupazione e per la prima volta intacca anche i risparmi». Il 24,7% della popolazione vive ormai una situazione di esclusione sociale, dovuta alle difficoltà persistenti del nostro tessuto economico. Tra  soggetti più colpiti le donne, ma i riflettori sono puntati sull’emergenza giovanile: il 22% non studia né lavora. Questo il giudizio del presidente Istat Enrico Giovannini: «Un’eventuale riduzione della spesa sociale metterebbe seriamente a repentaglio la situazione delle famiglie di anziani raggiunti da aiuti pubblici: si tratta di circa 700 mila famiglie». Registrati anche i commenti di Fini («Continuano a pesare i nostri ritardi storici e i nodi strutturali da sciogliere»), Olivero delle Acli («Un Paese asfittico, incapace di ripartire, privo di un disegno di futuro»), Buttiglione («Il vero welfare continuano a essere le famiglie, ma quanto potranno reggere ancora? Il governo è del tutto inadeguato, serve una grande coalizione») e Susanna Camusso ( «La strategia del rigore ha scaricato sulle fasce deboli e sui giovani tutti i costi della crisi»). Mentre per il ministro Sacconi nel rapporto Istat, tra luci e ombre «viene riconosciuta la coesione sociale che è stata mantenuta, così come viene riconosciuta la stabilità di finanza pubblica». AVVENIRE infatti affianca all’analisi del rapporto Istat l’effetto Standard’s & Poor’s su Piazza Affari che ieri ha perso il 3%. Ma per le agenzie “sorelle” Fitch e moody’s il giudizio sull’Italia è positivo e Tremonti assicura che i nostri conti sono in ordine e che il risanamento continua.

LA STAMPA  titola in prima pagina “Crisi, pagano giovani e donne” perché la notizia sono i dati pubblicati ieri dall’Istat, ma è l’editoriale di Mario Calabresi  che sottolinea come la povertà non sia una news. «Agli italiani il rapporto dell’Istat non dice assolutamente niente di nuovo. Racconta cose che già sanno, sentono sulla pelle ogni giorno: la paura di scivolare nella povertà, il calo del poter d’acquisto, la minore capacità di risparmiare e il gonfiarsi del numero dei giovani che non trovano lavoro e passano le giornate fra divano della casa dei genitori, computer e l’aperitivo in piazza.  Il rapporto Istat sarebbe invece utilissimo per la classe di governo, dovrebbe essere e una lettura obbligatoria, per indicargli le priorità e le ragioni d’allarme». E ancora: «Dobbiamo partire proprio dai due milioni di cittadini fra i 15 e i 29 anni  che non fanno nulla, non hanno alcun reddito perché vivono degli stipendi dei genitori, delle pensioni dei nonni e dei risparmi da generazioni che li hanno preceduti.  Il messaggio di sfiducia è talmente chiaro forte che siamo al quart’ultimo posto in Europa  per numero di laureati e le immatricolazioni all’università  dopo anni di costante incremento da due anni  hanno cominciato a calare visibilmente.  C’è  chi sostiene che si tratta di giovani impreparati. Nei curricula che arrivano in redazione ogni giorno si legge di laurea, master e almeno due lingue. Hanno cioè fatto tutto gli è stato richiesto e hanno avuto famiglie che hanno investito su di loro.  Dobbiamo cominciare a creare nuove  opportunità. Dovremo vergognarci di aver fatto uscire 800mila donne dal mercato del lavoro che hanno avuto al grave colpa  di aver messo al mondo un figlio. Un altro segno che va contro natura.  Il declino non è una strada obbligata, l’Italia è piena di energie,m di intelligenze, ma questi giacimenti faticano sempre più a trovare sbocco».

E inoltre sui giornali di oggi:

NUCLEARE
LA REPUBBLICA – Oggi il governo chiederà la fiducia sul decreto Omnibus, che contiene la moratoria sul nucleare, il cui effetto potrebbe essere di annullare il referendum. Le opposizioni protestano, il comitato promotore parla di «scippo» agli italiani. L’ultima parola comunque spetterà alla Consulta che a breve si pronuncerà sull’ammissibilità del quesito alla luce del provvedimento approvato. Già ieri sit-in dei comitati referendari davanti a Montecitorio. Oggi si replica.

SPAGNA
IL MANIFESTO – Il secondo tema, con una grande foto in prima pagina del MANIFESTO è quanto sta accadendo in Spagna: “Vincono i popolari. Anzi no, perdono i socialisti” è il titolo sulla foto di Zapatero, nel breve sommario si dà anche conto dei manifestanti alla Puerta del Sol a Madrid, il movimento degli indignati che «accoglie con circospezione il successo del Pp e decide di andare avanti con la “acampada”». Due le pagine interne dedicate a quanto sta accadendo in Spagna, la 8 e la 9, che si aprono con il titolo “Indignati E ora che si fa?”, nell’articolo si cerca un’analisi del voto, come nell’articolo di pagina 9 “Il giorno dopo lo tsunami” che  punta l’obiettivo sulle conseguenze politiche si osserva: «(…) Il disastro dei socialisti era atteso – e meritato – ma è la sua dimensione che spaventa. Ieri Mariano Rajoy, lo squallidissimo leader del Pp, ha già chiesto di nuovo “elezioni anticipate”, perché i “populares possano tirar fuori la Spagna dalla crisi” che ha affogato Zapatero. Balle, naturalmente, perché il Pp non ha proposte alternative credibili, di fronte alla crisi, al “mercato” che reclama altri aggiustamenti, a quelle accettate sciaguratamente da Zapatero. Ha solo “mas de lo mismo”, più della stessa ricetta. (…)»

AVVENIRE – Iin prima titola “Zapatero travolto nel voto locale” e nell’occhiello scrive “Ora vacilla il governo socialista”. A pagina 18 i servizi dell’inviato Michela Coricelli parlano di “tsunami che travolge Zapatero” con l’opposizione che conquista 10 delle 13 regioni in gioco ed espugna anche le roccaforti rosse come Barcellona e Siviglia: «I socialisti sono precipitati al 27,8%, dieci punti in meno rispetto al centro-destra: sono i peggiori risultati locali dalla fine del franchismo. Il premier ha ammesso la sconfitta in tv, ma ha ribadito ieri che resterà in carica ancora fino a marzo 2012». Nel commento l’analista Edurne Uriarte sottolinea che «così si chiude un’era del Paese… La causa principale è la crisi e la gestione della crisi da parte di Zapatero. La gente pensa che sia stato totalmente inefficiente».

AMMINISTRATIVE
IL GIORNALE – Spazio ad una lettera del Governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, titolata “Vi spiego perché non ho mai smesso di sostenere Letizia”, che risponde ai titoli di questi giorni del quotidiano milanese che lo indicavano come favorevole a Pisapia. Scrive il presidente della Regione «i cittadini milanesi e lombardi, cattolici e laici, anche in queste settimane e in questi giorni hanno ascoltato e ascolteranno dal loro Presidente di Regione con nettezza e senza infingimenti l’incoraggiamento a votare per Letizia Moratti per mille e un motivi, dall’Expo, agli aiuti alle famiglie e agli anziani, alle politiche giovanili, a quelle del lavoro e dell’impresa».

FONDAZIONI 
IL SOLE 24 ORE –  «La storia e il futuro delle banche popolari non si discutono, ma e’ giusto tenere conto che negli ultimi anni sul mercato si sono affacciati nuovi investitori. Ed e’ legittimo che anche soggetti come i fondi di investimento o le Fondazioni ex bancarie partecipino al capitale». Intervistato, Emilio Zanetti, presidente del consiglio di gestione di Ubi Banca, condivide pienamente le proposte di autoriforma avanzate dal presidente dell’Associazione nazionale delle banche popolari, Carlo Fratta Pasini. «Aumentare il tetto al voto azionario dallo 0,5% all’1% per tutti i soci e lasciare all’autonomia statutaria la facolta’ di innalzarlo al 3% per investitori istituzionali e Fondazioni e’ assolutamente condivisibile. Credo che si tratti di una proposta molto equilibrata e positiva per il sistema delle Popolari». Secondo Zanetti, consentire alle Fondazioni si salire al 3% serve a sanare le situazioni esistenti e a creare un’alleanza territoriale piu’ ampia tra Popolari e Fondazioni. «E’ evidente – spiega – che alcuni casi, come quello di Ubi con 2 Fondazioni gia’ oltre il 2%, diventerebbero regolari a tutti gli effetti, senza bisogno delle annuali “sanatorie” contenute nel decreto milleproroghe. Ma l’apertura alle  Fondazioni e alle Oicr dimostra che le Popolari non sono organismi chiusi alle innovazioni». 


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