Famiglia

Cambiare il mondo?Ci vogliono i titoli

Si chiama “attivismo dell’azionista”, l’ultima frontiera dell’impegno civile: porta la protesta nelle assemblee

di Carlotta Jesi

Cosa fanno sei orsi bianchi dell?Artico tra i businessmen in gessato della city? Ridere, d?accordo. Ma se i quattro zampe in questione sono alti quanto un uomo e nella tasca della loro pelliccia ecologica tengono ben stretti 50 mila dollari di azioni BP Amoco, la multinazionale inglese che vuole estrarre petrolio dall?Oceano Artico, le cose cambiano. A Londra, il 13 aprile, gli ?uomini orso? di Greenpeace e una sessantina di colleghi incravattati che partecipano all?esclusiva assemblea generale degli azionisti BP cercano di cambiare la storia dell?attivismo ambientalista internazionale. E ci riescono : la mozione presentata perché British Petroleum interrompa la costruzione di una piattaforma petrolifera al Polo Nord e utilizzi i fondi previsti per l?estrazione di greggio dalla riserva naturale Artic National Wildlife Refuge in energia solare, ottiene il consenso del 13,5% dei votanti. Un risultato storico annunciato in prima pagina dal Financial Times e snobbato dalla stampa italiana. Troppo occupata per accorgersi che, a Londra, Greenpeace combatteva la globalizzazione con una nuova ?arma?: lo shareholder activism, o ?attivismo degli azionisti?. Negli Usa è ormai una prassi Una novità assoluta per l?Italia ma non per gli Usa dove, da oltre dieci anni, associazioni e investitori etici acquistano azioni delle multinazionali inquinanti e poco rispettose dei diritti umani per cambiarne il comportamento, votando contro iniziative e prodotti che danneggiano l?ecosistema durante le assemblee degli azionisti. Teoricamente non fa una grinza: se per ignorare proteste e slogan gridati dalla strada ai direttivi delle grandi aziende bastano poliziotti e doppi vetri, più difficile diventa zittire un azionista che parla ai colleghi in ovattate ed eleganti assemblee societarie. Ma, viene da chiedersi, quanto pesa davvero il voto di un ambientalista per big del commercio mondiale come MacDonald?s, Shell, Sun Oil e Gap? Parecchio. «La Amoco, che nel ?93 si era installata con macchinari inquinanti nel Burma, ha finito per lasciare il Paese», informa il sito Internet della Trillium Asset Management di Boston (www.trilliuminvest.com). Una delle società di investimenti etici e socialmente responsabili più famose degli Stati Uniti che pubblica sul web un elenco aggiornato delle campagne di shareholder activism in atto corredato dai risultati raggiunti negli ultimi anni. Scopo dell?operazione: convogliare l?interesse degli investitori sociali sulle raccolte di azioni e raggiungere i 2 mila dollari di share (circa 4 milioni di lire) necessari per presentare una risoluzione nell?assemblea.«Una volta raccolte le azioni, presentare una risoluzione ben fatta, che evidenzi le criticità e i rischi socio ambientali di una strategia aziendale ma indichi anche nuove business opportunities è la cosa più importante», spiegano i dirigenti di Domini, il più antico e prestigioso ?Indice sociale? degli Usa che su Internet, all?indirizzo www.domini.com, tiene quotidianamente informati investitori etici e associazioni sul valore delle loro azioni. E, soprattutto, sull?importanza di alleanze non profit in grado di presentare risoluzioni che convincano davvero gli azionisti di grandi multinazionali. Risoluzioni come quella appena presentata alla BP Amoco, che Greenpece ha costruito tassello per tassello con i partner americani della Sane Bp. La rete di organizzazioni non profit, fondazioni e società di investimento etico come Trillium creata nel 1999 appositamente per raccogliere le azioni necessarie a bloccare il surriscaldamento dell?Artico e l?estinzione dei suoi orsi bianchi che i progetti petroliferi della Bp al Polo avrebbero procurato. Una vera cordata di investitori, insomma. Che anche dopo essere diventati azionisti della Bp hanno continuato le loro operazioni di boicottaggio nell?Artico e, a Londra, hanno sorpreso i canuti azionisti della multinazionale inglese con uno studio, appositamente commissionato alla Kpmg, sui benefici economici e socioambientali che la loro azienda avrebbe avuto reinvestendo il denaro destinato alla piattaforma dell?Artico in energia solare. Un perfetto esempio di shareholder activism che, con il 13,5% dei consensi nel primo anno di votazione, si colloca in cima alla classifica delle campagne azionarie ambientaliste. La Chiesa all?assemblea «Ma non sempre i risultati arrivano così in fretta e sono così eclatanti, a volte ci vogliono anni», spiega l?economo generale dell?ordine dei Frati minori cappuccini Fra? Gambaro. «In America anche la Chiesa, da oltre dieci anni, acquista titoli azionari di grandi aziende per partecipare alle assemblee degli azionisti e, in quelle occasioni, cercare di far approvare criteri produttivi eticamente corretti. Ma perché una risoluzione sia approvata o ottenga anche solo interesse, ci vuole tempo: noi per esempio, con altre non profit e fondazioni religiose statunitensi, da 15 anni presentiamo la stessa risoluzione nell?assemblea della Philip Morris che riteniamo sia direttamente coinvolta nel contrabbando di sigarette», spiega per nulla preoccupato di lungaggini o basse percentuali di consensi. E gli ultimi risultati di questo attivismo made in Usa gli danno ragione: nel 1997 alla Sun Oil è bastato che il 10% dei suoi azionisti volesse una maggiore coscienza verde per adottare un preciso protocollo di rispetto ambientale, MacDonald?s ha rinunciato a contenitori per panini fatti con materiali tossici cui si era opposta una risoluzione votata dal 3% dei suoi azionisti e la Gap, multinazionale dell?abbigliamento cui una cordata di azionisti responsabili (guidati dall?Indice Domini) chiede da tempo di adottare migliori standard di vita per i dipendenti nei Paesi di sviluppo, ha aperto un tavolo di concertazione permanente con le associazioni.«Basse percentuali di consensi non significano aver perso la partita», spiega un cartello luminoso dedicato agli azionisti responsabili che visitano The Shareholders Activism Centre. Un sito Internet creato da due grandi fondi etici americani, l?Interfaith Center on Corporate Responsibility e il Social Funds, per aiutare gli indecisi a comprare azioni di multinazionali che commerciano in armi, sfruttano i bambini o inquinano. «Per ogni tipo di sopruso, c?è una cordata di attivisti pronti a intervenire nelle assemblee », spiega il Centro. Che nel solo ?99 ha presentato più di 200 risoluzioni a 150 delle maggiori aziende americane ed è sempre in cerca di nuovi ?azionisti attivisti?. Chi l?avrebbe detto che in borsa si può cambiare il mondo?


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