Welfare
Auto-aiuto, l’io torna protagonista
Metodi Il self-help si fa largo nelle tecniche di cura e di recupero sociale. È semplice e valorizza le risorse interiori
La società in cui viviamo esalta con ogni mezzo la ricerca della felicita, del successo, della realizzazione di sé, tutte aspirazioni in qualche misura giuste e insite nell’uomo, ma, proprio perché tali, se non vengono raggiunte nei modi e nei tempi desiderati possono creare problemi anche seri alle persone. Quando subentra un’esperienza di malattia, di depressione, di isolamento che allontana dal normale svolgersi dei propri impegni e dal realizzarsi dei progetti in atto, il dolore che ne deriva mette l’individuo a dura prova. In questi frangenti si può scoprire la propria debolezza, che può portare al ripiegamento su se stessi e alla disperazione, oppure può essere l’occasione in cui si scoprono e si attivano risorse nascoste che partono proprio dall’intimo della persona, dalle capacità non intaccate dalla malattia, dalla volontà di lottare per mantenere la propria dignità.
Il self-help cambia le regole
L’auto-aiuto ribalta un po’ la logica, più diffusa, secondo la quale chi è malato riceve attenzione e sostegno da chi è sano. Al contrario, l’auto-aiuto parte dal presupposto che la condivisione della difficoltà porta alla valorizzazione della propria esperienza, e questo rafforza il singolo e risulta utile agli altri che lo ascoltano, lo capiscono e lo consigliano, proprio perché stanno vivendo la stessa realtà. In questo modo ciascuno diventa responsabile per sé e per i contributi che dà al gruppo, diventando attore delle proprie scelte e dei cambiamenti di vita che la nuova situazione può richiedere.
In Italia ci sono molte esperienze di questo tipo che si possono far risalire addirittura alle associazioni di mutuo soccorso del secolo scorso, ma l’elaborazione teorica in merito è ancora scarsa. Anche per questo motivo esiste un panorama estremamente variegato di realtà che possiamo schematicamente suddividere come segue:
1. gruppi che forniscono aiuto in situazioni di crisi (persone infartuate, mastectomizzate, vedove, madri abbandonate, ecc.);
2. gruppi che aiutano persone stigmatizzate ed emarginate (omosessuali, ex-carcerati, pazienti psichiatrici, ecc.);
3. gruppi portatori di una forma di dipendenza (alcolisti anonimi, obesi, fumatori, ecc.).
A seconda dei problemi che affrontano i gruppi di auto-aiuto vedono fra i loro partecipanti individui che vivono in prima persona situazioni di disagio, oppure familiari di soggetti portatori di disturbi più o meno gravi. In entrambi i casi, il ritrovarsi insieme in un luogo definito e riconoscibile, a scadenza periodica, può essere visto:
1. come risorsa, perché l’essere uniti dà sostegno psicologico e fa riscoprire il senso dell’amicalità e della solidarietà;
2. come stile di attività che, partendo dalla solidarietà, arriva all’autoconsapevolezza e alla valorizzazione di una determinata condizione;
3. come metodo di approccio ai problemi, essendo anche una tecnica di lavoro di gruppo utile per affrontare momenti particolarmente difficili nella vita (malattie o problemi e rapporto con questi).
Un metodo riconosciuto dai Servizi
I servizi sociali hanno da tempo riconosciuto l’organizzazione di comunità come metodo di lavoro che l’assistente sociale può adottare per promuovere la comunità stessa nella sua capacita di autodifesa e di sviluppo delle proprie potenzialità, partendo dalla capacità di rispondere ai bisogni nati dalle sue stesse contraddizioni. In certi momenti, negli ultimi anni, è prevalsa l’opinione che fosse necessario un intervento tecnico-professionale per affrontare i problemi della società (come droga, aids o disturbo mentale), però è indubbio che senza il coinvolgimento dei diretti interessati e del contesto comunitario in cui il disagio si manifesta, si può fare ben poco per restaurare una situazione di benessere globale.
All’estero è il nuovo welfare
In certi Paesi l’auto-mutuo-aiuto è una risposta alla crisi del welfare-state, all’abbandono di intere fasce di marginalità, perché lo Stato non è più in grado di rispondere economicamente a una serie di richieste espresse dall’utenza. In Italia, però, pare che questo sia vero solo in parte (sicuramente il superamento di una visione centralista dello Stato ha contribuito a risvegliare lo spirito di auto-organizzazione per creare o ricreare gruppi di tutela e di produzione di servizi), e che la solidarietà e lo scambio reciproco siano soprattutto visti come strumenti per garantire la qualità della vita.
Spesso, all’interno di associazioni di volontariato, soprattutto di quelle operanti nel settore socio-sanitario, nascono iniziative di auto-aiuto, però può anche capitare che esperienze di auto-aiuto arrivino a costituirsi in associazioni per meglio gestire i rapporti con le istituzioni, per essere più visibili e promuovere più efficacemente i propri progetti.
Normalmente, comunque, tutti questi gruppi sono:
1. costituiti da persone che condividono lo stesso problema o la medesima condizione e che si associano in virtù dell’impegno attivo e reciproco di tutti i partecipanti alla promozione del benessere;
2. basati sulla libera iniziativa di soggetti autonomi;
3. basati sulla parità dei partecipanti;
4. non regolamentati e tanto meno imposti da dispositivi di legge;
5. privi di statuto, magari sostituito da un manifesto di obiettivi;
6. non finalizzati ad alcuna forma di guadagno.
Un facilitatore alla guida
Di solito i gruppi di auto-aiuto sono piccoli, composti da una decina di persone, e vengono guidati da un facilitatore, ovvero da un operatore con formazione specifica, anche per la conduzione di gruppi, che deve favorire la partecipazione, la discussione e lo scambio.
È fondamentale che i partecipanti riescano a esprimersi liberamente, a confrontarsi senza sentirsi giudicati e senza ricevere prescrizioni impositive sui comportamenti da tenere. Proprio per questo gli alcolisti, per esempio, mantengono l’anonimato, e i gruppi di familiari di malati psichici organizzano momenti di festa con i loro ragazzi o momenti di sensibilizzazione rivolti al territorio di residenza.
Si tratta di esperienze che devono rafforzare il singolo e la categoria cui appartiene: in ogni partecipante si deve fare strada la consapevolezza e la forza di chiedere e offrire sostegno. Come? Scambiando e quindi mettendo in comune, con altri simili a sé, storie, esempi, emozioni e risorse perché solo in questo modo si passa dall’aiuto al mutuo-aiuto.
Insieme, infatti, è possibile moltiplicare le occasioni di crescita, di sperimentazione e quindi le energie e le speranze.
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