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Privacy, la cartella clinica si distrugge?

Anche se può sembrare che la distruzione favorisca la riservatezza, in base alle normative non si può fare.

di Redazione

Vorrei sapere se è possibile, una volta dimessi dall’ospedale o da un luogo di cura, richiedere la distruzione della propria cartella clinica a tutela della propria privacy. Mario G. (Roma) Risponde Massimo Persotti La legge sulla privacy (Legge 31 dicembre 1986, n. 675) prevede effettivamente all’art.13, comma 1, la possibilità di richiedere la cancellazione o la trasformazione in forma anonima dei propri dati personali. Caso particolare, però, assume la cartella clinica, come spiega il difensore civico della regione Lombardia Alessandro Barbetta che ha affrontato nel recente passato una vicenda analoga. Pur non esistendo una normativa specifica sulla natura e sul trattamento delle cartelle cliniche da parte del servizio sanitario nazionale, sembra chiaro che la richiesta avanzata non possa essere accolta. È vero che la cartella clinica costituisce una banca dati e che tutte le principali attività di gestione delle cartelle possono qualificarsi come trattamento di dati sensibili ai sensi della legge 675/1996. È altrettanto vero, però, che la raccolta di questi dati e la loro conservazione, pur garantendo la segretezza, costituisce per il personale sanitario un obbligo di legge. Circostanza che si desume dal fatto che il rifiuto di declinare le generalità e l’opposizione alla loro registrazione rende impossibile la prestazione della cura, ma anche dall’obbligo stabilito dal decreto del ministero della sanità del 28 dicembre 1991 affinché tutte le strutture sanitarie adottino la scheda di dimissione ospedaliera che “è parte integrante della cartella clinica, di cui assume le medesime valenze di carattere medico-legale”. Obbligo confermato anche dal provvedimento del 30 settembre 1998 dell’Autorità garante della protezione dei dati personali che autorizza tutto il personale sanitario a trattare i dati sensibili raccolti nell’esercizio della professione senza necessità di farne apposita richiesta al garante stesso. Ma la cartella clinica è anche un atto pubblico, come ricorda il decreto del presidente della giunta regionale lombarda del 24 novembre 1999 («la cartella clinica è un atto pubblico, dotato pertanto di rilevanza giuridica, la cui corretta compilazione obbliga la responsabilità del medico»). La cartella, quindi, non ha il solo scopo di garantire una piena tutela della salute del singolo degente, ma è anche necessaria sia per la salvaguardia della salute pubblica, permettendo una valutazione comparativa tra casi simili, sia perché vi sia una testimonianza dell’operato dei medici nel caso di instaurasse un giudizio di responsabilità nei loro confronti. Ma c’è un limite temporale per la sua conservazione? Il decreto legislativo 30 settembre 1963, n. 1409, sugli archivi di Stato, impone la conservazione dei documenti degli enti pubblici, subordinandone la distruzione ad una apposita procedura di scarto che si attiva solo a diversi anni di distanza dall’archiviazione. Per quanto riguarda le cartelle cliniche, esistono diverse circolari del ministero della sanità. Una più datata, del 1968, consiglia un periodo minimo di venticinque anni. La più recente, del 1986, afferma addirittura che “le cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti, vanno conservate illimitatamente, poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentaria per le ricerche di carattere storico sanitario”. E la legge sulla privacy salva espressamente dall’abrogazione (art. 43 comma 2) “le vigenti norme in materia di accesso ai documenti amministrativi ed agli archivi di Stato”. A conclusione di ciò, Alessandro Barbetta nel suo caso ritenne corretto il comportamento dell’azienda ospedaliera San Paolo che respinse la richiesta del signor M. di cancellazione dei dati contenuti nella sua cartella clinica. Nulla è tolto, ovviamente, al suo legittimo diritto alla segretezza sia sul motivo del ricovero, sia sulle dichiarazioni rese agli operatori sanitari, diritto tutelato anche a livello penale dalle norme che puniscono la violazione del segreto d’ufficio e/o professionale.


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