Welfare

In carcere, dove le notti son piene di fantasmi

Lettera dal carcere di Pisa.

di Riccardo Bonacina

Chiamatemi Ismaele! L’altra notte è successo di nuovo. Ma ormai ho imparato ad accorgermene, non mi ha preso di sorpresa. Ho letto qualche pagina di Delitto e castigo, ho spento la luce e mi sono accinto ad un buon sonno ristoratore, guardando la luce del faro che entrava a scacchi dalle sbarre della finestra. Mi sono accorto subito che si trattava di una di quelle notti! Non è stata la mancanza di sonno, quello è un sintomo facoltativo. Piuttosto quella leggera ansia che, senza un perché, iniziava ad insinuarsi subdolamente all’altezza della bocca dello stomaco. Ecco, ci siamo, mi son detto! E con mesta rassegnazione mi sono preparato ad affrontare un’altra, l’ennesima, di quelle notti. Sono le notti in cui, inaspettatamente, senza che ci sia stata una premonizione, i fantasmi del tuo passato vengono a trovarti per sbranarti con le loro bocche affamate. I frammenti del tuo essere ti si scagliano contro, come schegge impazzite, e le immagini della tua vita passata ti si succedono davanti agli occhi come in un grottesco caleidoscopio. L’ansia cresce, ti avvolge nelle sue spire, fino a trasformarsi in angoscia, paura, terrore. Rivedi passo dopo passo le tue goffaggini, i tuoi errori, i tuoi drammi ed anche i momenti felici che, come stelle fuggenti, hanno illuminato il tuo percorso per un istante e sono sparite, a rischiarare altre spiagge. Ma soprattutto, con più forza, si fanno avanti gli atti mancati, le parole che non hai mai detto, gli abbracci che non hai mai dato, gli amori che non hai vissuto. Il vuoto ancestrale che ti separa dalla moltitudine degli eventi. Sì, non c’è niente di peggio del rimpianto! Non dovremmo mai dire “se…”, ma il grazioso profilo di una bambina bionda si fa avanti fra i meandri della tua mente malata, non riesci a metterla a fuoco, ma …sì, era la mia amica del cuore, come si chiamava? Andavamo a scuola insieme ed io l’accompagnavo a casa dopo le lezioni, io parlavo e lei stava in silenzio, ma ogni tanto si voltava e mi sorrideva, un sorriso luminoso e innocente… poi il volto cambia pian piano, si fa meno luminoso, si raggrinzisce, ora ha un velo in testa, è una suora, ma sì, quella del collegio che mi mandava sempre fuori nel corridoio, faccia al muro, perché mi macchiavo inavvertitamente la giacchetta… ora il naso si fa più adunco, è un becco, un’aquila che spiega le ali e mostra gli artigli, pronta a ghermirti… Allora ti alzi, accendi una sigaretta, speri che la nicotina possa attenuare il dolore, calmarlo per un attimo, vuoi riprendere fiato, scacciare i fantasmi, ma… sono ospiti coscienziosi, non fanno visite di cortesia, sono tenaci. Se ne stanno lì seduti proprio intorno al tuo letto e ti guardano, in silenzio. Non hanno bisogno di parole. Una sigaretta dietro l’altra, il fumo forma una nebbia che distorce i contorni dei miei ospiti, accidenti cosa darei per un bicchiere di buon bourbon! Sono di nuovo a letto, mi giro e mi rigiro nelle ruvide lenzuola dell’Amministrazione. Certo non aiutano. La luce di una torcia mi fa sobbalzare… un giro di ronda, l’agente guarda dentro e… magari prova anche una punta d’invidia: «Almeno loro possono dormire, io devo arrivare alle otto…». Mi reimmergo nel vortice dei ricordi, non faccio più resistenza, sono troppo stanco, mi lascio trasportare sulle onde di questo maremoto, nella tempesta della memoria. Mi sbattono a destra e a manca, mi sommergono, trattengo il fiato per poi riemergere da qualche altra parte, nell’immensità di quest’oceano. Poi, dopo un tempo che mi è parso un’infinità, un raggio di luce squarcia la tenebra, i marosi sembrano placarsi e mi avvio verso il luogo del naufragio. è la luce dell’alba che irrompe nella mia cella. è finita un’altra di quelle notti. E naufragar m’è dolce, in questo mare!


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