Formazione

Curo le vittime dei vostri silenzi

Più di 100 persone l'anno si ammalano di Creutzfeldt-Jacob. Un medico accusa

di Gabriella Meroni

I malati dell?encefalopatia infettiva che potrebbe derivare dalla mucca pazza sono trattati come appestati. I medici si rifiutano di far loro le analisi, gli infermieri non li toccano, le famiglie sono lasciate sole. E il ministero tace. Anche le cifre del contagio Per arrivare nello studio del professor Orso Bugiani, uno dei due referenti italiani per la sorveglianza sulla malattia di Creutzfeldt-Jacob, bisogna volerlo, e sapere perché. All?ingresso dell?istituto neurologico Besta di Milano sanno solo fare un ampio gesto con il braccio, dicendo ?a sinistra, poi dritto, in fondo?. E in fondo bisogna andarci veramente, dopo un corridoio che si avvita su se stesso e poi piega in su, per due rampe di scale, tra frigoriferi pieni di materiale biologico e lettini abbandonati, fino a una porta su cui c?è scritto ?ingresso riservato agli autorizzati?. Qui, in una sala metà biblioteca e metà laboratorio, il professor Bugiani riceve il 50 per cento dei malati italiani di CJD (sigla dall?inglese Creutzfeldt-Jacob Desease): in media cento persone l?anno, negli ultimi due anni di più. Malati segreti e segregati di una malattia misteriosa, di cui solo oggi trapelano cifre, dimensioni, costi sociali. A partire dalla sua allarmante diffusione in Italia: in meno di sei anni i casi sospetti sono triplicati e la mortalità ha superato quella della Gran Bretagna. Di Creutzfeldt infatti si muore, in pochi mesi e tra orribili sofferenze, e il fatto che i medici non conoscano esattamente le modalità del contagio (anche se molti ricercatori sono ormai certi che i bovini malati di ?mucca pazza? provochino una nuova variante della malattia) fa aumentare paura e omertà, anche negli ospedali. Al punto che i medici si rifiutano di fare le autopsie, gli infermieri non vogliono assistere i pazienti, gli inservienti non accettano di portarli sulle barelle. Un dramma che fa soffrire centinaia di famiglie e assomiglia tanto – anche per l?atteggiamento difensivo delle autorità sanitarie, preoccupate di proteggere gli italiani più che di informarli, come nel recente caso ?forse? registrato al Policlinico di Napoli – al pessimo clima da pestilenza che accompagnò i primi casi di Aids. Un clima di ?dagli all?untore? Lo studio del professor Bugiani è silenzioso come di solito sono gli istituti universitari, più che i reparti ospedalieri. Una decina di medici, tutti molto giovani, la maggior parte donne, si aggirano attorno ai banchi delle analisi. «È un problema culturale, non certo medico», dice il professore, staccando d?un colpo il filo del telefono che fino a un minuto prima aveva continuato a suonare. «C?è un clima di ?dagli all?untore? che non ha paragoni con altre malattie, magari più contagiose. Le autopsie si fanno a tutti gli infettivi, anche ai malati di Aids, eppure per la CJD c?è il panico. Certo, occorre una sala attrezzata per i grandi rischi, e non è sempre facile ottenerla perché in questo Paese le cose complicate si fanno malvolentieri…». Bugiani prende delle carte, le sfoglia, le sparpaglia sulla scrivania. «Il risultato è questo: io ho visto 95 persone morire di CJD, ma ho potuto fare solo 62 autopsie. È pochissimo, ed è assurdo che per questo debba incolpare i miei colleghi medici e la mancanza di strutture adeguate». All?imbarazzo carico di terrore dei medici si accompagna la solitudine, spesso ricercata, delle famiglie. Che scelgono di isolarsi e di non comunicare con il mondo, nascondendo i malati. Anche le associazioni che si occupano di altre demenze degenerative, come il più comune Alzheimer, non riescono a intercettarli. «C?è un fortissimo tabù su questa malattia», ammette Gabriella Salvini Porro, presidente di Alzheimer Italia, l?organizzazione più importante e diffusa nel nostro Paese. «Ma c?è anche vergogna e ignoranza. Una volta una signora mi disse che era la ?malattia dei cannibali? perché diffusa un tempo tra gli indigeni della Nuova Zelanda che mangiavano il cervello dei parenti. Pregiudizi assurdi, convinzioni oscurantiste di cui purtroppo fanno le spese i malati e le loro famiglie». I morti raddoppiati in sei anni E lo Stato? Tace anche lui. Il ministero della Sanità indaga sulla Creutzfeldt-Jacob solo dal 1993, in seguito all?epidemia della mucca pazza, cui sembra legata una variante della malattia (nvCJD) che colpisce soggetti più giovani ed è stata identificata in Gran Bretagna e Francia. Da noi no, anche se già 160 persone con meno di cinquant?anni sono state colpite, ventenni compresi. Mentre Orso Bugiani, membro del gruppo di lavoro sulla Creutzfeldt-Jakob della Commissione contro l?Aids e le altre malattie infettive del Ministero, si occupa dell?aspetto clinico della malattia, il referente scientifico e responsabile del registro nazionale è il professor Maurizio Pocchiari dell?Istituto Superiore di Sanità. È lui che ha registrato 675 casi sospetti dal 1993 a metà ?99, lui che ha visto i decessi raddoppiare. Quanto a tasso di mortalità, in sei regioni italiane già nel 1998 eravamo al di sopra della media mondiale, identificata in un caso su un milione di abitanti. Eppure Bugiani al Besta, il centro di riferimento nazionale, ha un solo letto a disposizione dei malati. Solo due letti: ricoveri a rotazione «Veramente i letti sono due», precisa, «ma uno è destinato a un parente, cui è necessario insegnare le norme di assistenza. Si tratta di precauzioni normali per i grandi infettivi, guanti, mascherina, protezioni. Non trattengo un malato per più di cinque giorni perché sono costretto a fare ricoveri a rotazione: entrano la domenica sera, e il venerdì devo dimetterli». E quelli che non trovano posto qui da lei? «So che a volte li ricoverano tra gli altri infettivi negli ospedali generali, se il medico è disposto a tenerli. Ma il ricovero non serve a niente al malato, che non ha speranze di guarire. Servirebbe invece moltissimo al neurologo….». Cioè? «Per studiare la malattia e conoscerla di più. Siamo di fronte a una patologia che al massimo dura un anno. Senza la possibilità di tenere i malati sotto osservazione, come faremo a capire come evolve e soprattutto come si trasmette?». Se per esempio venisse dalla mucca pazza… «Certo. Io non credo al contagio da bovini, il collegamento diretto non è stato ancora dimostrato. Ma sono stati fatti tutti gli studi necessari a escluderlo? Il problema è che per questa malattia non c?è il personale, non ci sono i centri, e non c?è nemmeno il tempo. E invece ci vorrebbero almeno cinque anni di studio continuativo per raggiungere questa certezza, che interessa tutti noi. Sa qual è il vero problema? Di paura ce n?è tanta, di strutture poche. Basterebbe adeguare le strutture alla paura, e staremmo tutti più tranquilli».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA