Formazione

Globalizzazione, il tuo nemico é femmina

Laureate, eleganti, abili, le signore di Seattle vanno all'attacco.

di Carlotta Jesi

Per sconfiggere la Banca Mondiale ha chiuso in un cassetto la sua laurea in ingegneria. Ma non si pente: “Fondare Global exchange e fermare il Wto a Seattle è stata l?esperienza più emozionante della mia vita”. Capelli castani alle spalle, sorriso aperto e due occhi scuri senza trucco che non si staccano un minuto dai suoi messaggi di posta elettronica: 700 in una settimana tra in ed exit box. Tra gli attivisti coperti di piercing, treccine rasta e tatuaggi che animano l?ufficio di Global Exchange, un loft sgangherato pieno di carte e poster colorati nel centro di San Francisco, Juliette Beck sembra un pesce fuor d?acqua. Eppure è stata proprio lei, 27 anni e un metro ottanta di altezza in abiti comodi di tessuto equo e rigorosamente riciclabile, a fondare l?associazione per i diritti umani che ha coordinato la grande protesta di Seattle. «Il mio quarto d?ora di celebrità», scherza Juliette. Che al vertice del Wto, davanti ai politici più potenti del mondo, è salita sul palco dei relatori chiedendo al mondo di ascoltare la voce dei dimostranti e ne è stata immediatamente allontanata a forza con le mani legate dietro la schiena. «La CNN registrò tutto, e non la smetteva più di trasmettere il filmato dicendo che mi avevano arrestata. Falso: mi hanno solo risbattuto in mezzo alla strada». Dove Juliette, laureata in ingegneria ambientale all?università di Berkley, si trova perfettamente a suo agio. Soprattutto sulle strade dei Campus americani che, matricola del primo anno, inizia a girare tenendo lezioni sui trattati commerciali come il North American Free Trade Agreement. “Ho iniziato a studiarli per aiutare gli Ittu Oromo: una popolazione nomade dell?Etiopia studiata durante una lezione di diritto rurale internazionale, distrutta da una diga idroelettrica finanziata dalla Banca Mondiale”. Che da allora è la nemica numero uno di Juliette: ?Banca Mondiale, Wto e Fondo monetario internazionale, il triangolo di ferro del corporativismo?, recita un cartello appeso dietro la sua scrivania nel loft di Global Exchange. L?associazione non profit che Juliette ha fondato con due amici dopo una breve esperienza nel mondo del buiness: ingegnere ambientale in una famosa azienda della Baia, stipendi grossi, abiti eleganti e pochissima soddisfazione. «Ho capito subito che non era il mio lavoro, accumulare soldi non mi interessava e così mi sono licenziata per dedicarmi al Terzo settore», spiega. Una decisione che oltre allo stipendio le è costato un trasloco dai quartieri eleganti di San Francisco all?appartamento di Ockland che oggi divide con altre cinque persone: una camera a testa, niente sala da pranzo e sveglie alle sei di mattina per accaparrarsi il bagno. Ma Juliette non si è mai pentita: «Molti miei coetanei farebbero lo stesso, il capitalismo e lo shopping non ci bastano. Punto, questo spiega tutto». O quasi. Già, perché se non si fa fatica a credere che tanti attivisti abbiano l?entusiasmo e la determinazione di Juliette, non sempre chi ha sfilato a Seattle, Davos, Washington e Londra aveva idee chiare come le sue. «La Banca Mondiale», spiega, «è nata dopo la Seconda Guerra Mondiale per sostenere la ricostruzione dell?Europa, e quindi con l?approvazione del piano Marshall non aveva più ragione di esistere. E invece si è reinventata un compito: prestare denaro ai Paesi poveri, con i risultati che ben sappiamo. Bisogna abolirla». Una posizione estrema per cui molto attivisti che l?hanno seguita per le strade di Seattle oggi bollano Juliette come anarchica e pazza. Ma a lei poco importa. «Costruire e mettere d?accordo una coalizione variegata come quella di Seattle è difficile», spiega, «ma è quello che dobbiamo provare a fare. Ci sarà sempre disaccordo quando si ha a che fare con istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e World Bank: a qualcuno basterebbe riformarli, io personalmente sono un?abolizionista». E un?anarchica? «Sì, certo. O forse no», risponde rivelando per un attimo un idealismo che deve ancora maturare, «diciamo che rispetto le organizzazioni anarchiche ma sto ancora imparando a capire cosa significa questa parola». La questione importante, per lei, oggi è un?altra: «può il modello anarchico che ha funzionato tanto bene nelle proteste essere applicato su scala internazionale e creare le strutture democratiche che ci servono per cambiare il mondo?». Domanda difficile. Da Seattle a Londra, nessuno è ancora riuscito a dare una risposta. Ma Juliette non demorde, i giovani che prendono la strada dell?anti-globalizzazione sono sempre di più e sempre più convinti. «Quando mi sono iscritta all?Università pensavo che sarei diventata un chiurgo ortopedico come mio padre, ma mi è bastato ascoltare la storia degli Ittu Oromo per invertire la rotta». E di vittime della globalizzazione, con la pelle nera come gli Ittu, le mani sanguinanti per le lunghe ore di lavoro nelle fabbriche della Gap e i campi di riso distrutti dai semi transgenici, per Juliette è pieno il mondo. Le multinazionali più potenti della terra hanno cercato di fermarla e corromperla. Ma la giudice più temuta di Washington non molla: combattere la globalizzazione e i prepotenti fa parte nel suo Dna. Nemico numero uno delle multinazionali americane, odiata dalla politica democratica e repubblicana, rinnegata dagli ex compagni di Harvard e dagli avvocati che facevano a gara per assumerla a Washington. Non è una vita facile quella del giudice Lori Walsh, elegantissimo capo del Global Trade Watch. Il nucleo anti globalizzazione di Public Citizen, una delle organizzazioni di consumatori più potenti d?America, che grandi aziende e cordate politiche hanno inutilmente cercato di far chiudere. «A fermarmi hanno provato anche con un assegno di 800 mila dollari», ride Lori. Trenta sei anni, caschetto biondo, tailleur grigio da udienza e unghie laccate con uno smalto lilla che lasciano intravvedere una grinta da leone, «ma non ho accettato. La mia missione è un?altra». Fermare la globalizzazione controllata dalle grandi multinazionali e informare la gente degli accordi industriali che vengono presi alle sue spalle. Primo fra tutti, il Mai. Il Multilateral Agreement on Investement che limita i diritti dei governi nazionali sul controllo di speculazioni finanziarie e politiche degli investimenti contro cui Public Citizen si è battuto strenuamente. «Era il 1998», ricorda il giudice più odiato di Washington, «e i governi che si apprestavano a firmarlo, negavano perfino l?esistenza di un documento così rischioso». Che tuttavia Lori riesce a procurarsi viaggiando in incognito fino a Parigi con un blitz degno di James Bond: entra nelle cantine dell?Osce, si infila in un bidone della spazzatura e cerca tra i rifiuti fino a trovare fotocopie sgualcite del documento. «Pagine e pagine rovinate», spiega, «ma sufficienti per presentarsi nella sala delle fotocopie e dichiarare di aver perso una parte del documento». Che in pochi minuti Lori spedisce alle organizzazioni di consumatori, lobby, associazioni di attivisti e perfino al presidente del Senato americano costringendo gli Stati Uniti ad uscire dall?accordo. Un gesto che il governo, democratico e repubblicano, non le ha mai perdonato e usa per addittarla come nemica della sua stessa patria. «Solo intimidazioni», risponde Lori elencando uno per uno i suoi veri nemici: «La Camera di Commercio, i venti uomini più ricchi del Paese selezionati ogni anno dalla rivsita Forbes e i politici che da loro si sono fatti corrompere. Non certo gli americani, non le persone della strada. Difenderle e informarle sui rischi che corrono è diventato il mio lavoro». Da quando, nel 1991, in una seduta del Congresso sui rischi dei cibi transgenici, Lori chiede leggi che regolino il settore e si scontra con un rappresentate della Monsanto. «Gli accordi tra l?Organizzazione Mondiale del Commercio e il Gatt lo impediranno, disse. Fu allora che in me è scoppiata la rabbia: mi sentivo il guardiano di una banca che sorveglia il denaro dalla porta di dietro e da quella davanti si lascia rubare valori più importanti dei soldi. Da quel giorno lotto contro i signori della globalizzazione». Compresi Bill Clinton e il suo governo, che a Davos hanno promesso di tenere sotto controllo i rischi del capitalismo più sfrenato e, nei fatti, si muovono in tutt?altra direzione. «Vedremo se manterranno le promesse», precisa il giudice, «per il momento abbiamo visto solo emendamenti che, come al solito, cercano di non scontentare nessuno». Compromessi, insomma. Che a Lori davvero non piacciano, scegliere tra il bianco e il nero, il bene e il male, per lei è una questione di Dna. «Quando cresci in un piccolo paese del Wisconsin, a sei ore da Chicago, avere le tue idee, non essere luterana come il resto della popolazione e formarti una personalità diversa dagli altri è molto difficile. Abbassi la testa e ti adegui, oppure combatti. Io ho scelto di lottare per quello in cui credo». Ossia un futuro in cui non siano interessi economici e multimilardari a governare il mondo. «È il capitalismo di oggi», spiega sfogliando pagine e pagine di rapporti sulle conseguenze della globalizzazione stilati negli ultimi anni, «Prima era una questione di religione e conquista. Oggi un business, ben altra religione». Un business che per lei può contare su giornali più attenti agli sponsor che alle notizie e trattati commerciali scritti apposta per non essere capiti. Trucchi che il giudice Walsh conosce bene, e non ha più intenzione di tollerare. Paura di ritorsioni o ricatti dai big dell?Industria? «Neanche per idea», assicura con un sorriso materno e allo stesso tempo di sfida judge Walsh, «se tuo padre lavora per Ibm, e la sera torna a casa preoccupato dicendo che le grandi compagnie stanno crescendo troppo senza alcun controllo e reale contatto con i dipendenti, impari presto dove sta il nemico e a non avere paura».


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