Cultura

La resa di mamma Rania: in viale Jenner non prego più

di Redazione

La prima volta che entrai nel Centro culturale fu uno shock. E oggi è cambiato poco: norme igieniche insufficienti e sicurezza inesistentedi Rania Ibrahim
Ero molto orgogliosa, ma anche molto divertita dal fatto che quel giorno le mie amiche e vicine di casa mi avrebbero vista per la prima volta con il velo. Dovevo andare alla moschea, finalmente anch’io andavo a “Messa”, proprio come le mie coetanee italiane. Per tutto il tragitto continuavo a chiedere a mia madre se per caso uscivano dei capelli fuori dal foulard che, essendo di seta, non faceva altro che scivolare in continuazione. Arrivata a destinazione, rimasi sbalordita, o meglio, delusa. Mi aspettavo un grande edificio, enormi navate, vetri colorati, affreschi sulle pareti, luci, candele, incenso, un po’ quello che trovavo nella chiesa frequentata spesso per le attività sportive praticate nell’oratorio della parrocchia di quartiere, oppure simile alle meravigliose moschee visitate nei miei viaggi al Cairo.
Invece mi ritrovai in un piccolo appartamento, sopra un garage, in viale Jenner. Proprio così, era da poco stato inaugurato il Centro culturale islamico. Mio padre all’epoca, si parla degli inizi degli anni 80, per la nobile causa aveva donato diversi libri alla biblioteca del Centro, li aveva fatti arrivare apposta dal Cairo. Non era proprio quello che mi aspettavo, la delusione era percepibile sui volti mio e quello di mia cugina. Fummo quasi ingoiate dal nostro silenzio. Per terra c’era una moquette color verde oliva particolarmente triste, le donne raggruppate qua e là, in base ai Paesi di provenienza: egiziane da una parte, marocchine da un’altra parte ancora, e siriane-libanesi-giordane-palestinesi, la stragrande maggioranza, in un angolo tutto per loro, ma la presenza più evidente era quella dei numerosissimi bambini. La cosa che mi colpì più di tutte fu però un signore che, nel sottoscala, aveva improvvisato un piccolo suk, aveva ogni tipo di prodotto alimentare artigianale. C’era di tutto: prodotti in salamoia, mikallel, misticanze, limoni e peperoncino sott’olio e tanto altro.
Sono passati molti anni, io personalmente non ho più voluto frequentare “questi posti”, prevalentemente per l’assenza imbarazzante delle più elementari norme igienico-sanitarie, ma soprattutto di sicurezza. Se penso alla calca che potrebbe formarsi durante un incendio o altre situazioni di emergenza, mi spavento. Sono strutture nate come centri culturali, di aggregazione, e non di preghiera. Certo, il numero dei fedeli nell’ultimo ventennio è cresciuto in maniera esorbitante e sarebbe più giusto che un Paese civile garantisse luoghi di culto, a norma e ufficiali. Moschea, come la intendo io, è ben altro. E poi, mi sono sempre chiesta, ma gli imam, da dove vengono, chi gli dà l’incarico di guidare una intera comunità, che studi hanno fatto? Non mi sono mai piaciuti i discorsi anti Occidente, anti infedeli che spesso in passato si sentivano.

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