È tempo di guardare con altri occhi a questo nostro Paese. Il suggerimento ci viene da due personaggi insospettabili e che non hanno legami tra di loro. Il primo è Bill Emmott, il direttore di un giornale caustico come l’Economist, che ha pubblicato un libro pieno di stupore per il nostro Paese, per le sue risorse nascoste, per la creatività e la vivacità di cui si rivela capace. Il secondo personaggio è un pensatore francese, scettico di formazione, Marc Fumaroli, che, intervistato dal Corriere della Sera, è andato ancora più in là. Ha detto: «Non credo esista un altro Paese che benefici di tanta simpatia nel mondo. Immagino dipenda dal fatto che l’Italia è sempre stata produttrice di gioia e bellezza… Nel secondo e tristissimo Novecento, ci ha dato De Sica e Rossellini, e ci ha offerto il loro sguardo lucido e allo stesso tempo ironico sulla vita». Una condizione che, secondo Fumaroli, l’Italia ha ancora nel suo Dna: «Sarebbe normale che fosse l’Italia oggi a mostrare al resto dell’Europa la via per uscire dalle sabbie mobili della cultura di massa. Da voi non c’è mai stato disprezzo del mondo, ma un invito a gustarlo ancora, anche quando tutto sembra perduto e desolato».
Leggendo giudizi di questo tipo, scopriamo che qualcosa non torna. Che la percezione che l’Italia ha di se stessa, per responsabilità soprattutto di chi la rappresenta e di chi la racconta, è una percezione condizionata da un disfattismo e da un fatalismo a priori. Ma se invece le cose non fossero come noi le percepiamo o come un pensiero dominante vuole ossessivamente inculcarci nel cervello?
Nella settimana in cui Vita mette il piede in Borsa, prima società al mondo a quotarsi senza distribuire dividendi (ma avendo l’obiettivo di distribuire un dividendo sociale), ci piace prendere davvero in considerazione l’ipotesi che sino ad adesso l’abbiamo pensata sbagliata su noi stessi (e con il “noi” non intendiamo tanto Vita e l’azienda che lo edita, quanto il Paese in cui viviamo. Vita è un esito conforme a quella natura buona che questo Paese ha, pur senza saperlo). Che questo sia il modo giusto con cui vivere l’impresa e renderne tutti partecipi, dagli azionisti sino ai lettori. Ce lo conferma Luigino Bruni nell’appassionata lezione di economia che pubblichiamo in questo numero. Bruni ci spiega, ricorrendo a Schumpeter ma anche a Carlo Cattaneo, che chi avvia un’impresa è il più grande degli innovatori, «poiché crea vero valore aggiunto, e rende il sistema sociale dinamico».
Sono dinamiche che nel tessuto sociale italiano ben conosciamo e sperimentiamo. Tanto l’imprenditorialità è dimensione diffusa, radicata. Un’imprenditorialità cocciuta, tanto sa resistere ai cattivi pensieri del tempo e alle pastoie della burocrazia. Così diffusa da costituire il finale del romanzo italiano per eccellenza. Renzo Tramaglino, nell’ultima pagina del libro, avvia un’impresa tessile nella Bergamasca con il fedele cugino Bertoldo. Anche lui aveva attraversato i mala tempora, con tante cadute (quelle ben le conosciamo). Ma scrive, Manzoni, al fondo della sua natura c’era una «lieta furia». Strano ossimoro, che facciamo nostro. Essere contenti dentro. E non tirarsi mai indietro.
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