Cultura

Industria e biologico, sarà vero amore? di Ida Cappiello

Sempre di più i gruppi agroindustriali che si convertono alle produzioni naturali. Una svolta dettata solo dal mercato o c’è dell’altro? I casi Granarolo e Plasmon

di Redazione

Fino ad alcuni anni fa i cibi biologici avevano una forte connotazione antindustriale. Venduti in un pugno di erboristerie e negozi specializzati, si presentavano in confezioni di carta grezza, con etichette scritte in corsivo, in modo da richiamare la produzione artigianale del passato. Chi li acquistava non cercava solo la naturalità, ma anche precisi valori alternativi al sistema industriale, come l? ambientalismo e l?anticonsumismo, valori condivisi da molti dei produttori. Un mercato sostanzialmente elitario, anche per via dei prezzi, spinti verso l?alto dalla distribuzione limitata e dalla provenienza estera delle materie prime, dato che in Italia quasi nessuno si arrischiava a produrre senza regole chiare. La disponibilità di materie prime nazionali è stata in seguito, con il boom dell?agricoltura bio, un fattore importante di sviluppo per l?industria di trasformazione. Un?azienda di marca che vuole investire sul biologico, infatti, ha bisogno di forniture stabili nel tempo e qualitativamente garantite, più facili da ottenere attraverso accordi di filiera, cioè alleandosi con l?agricoltura locale. È questa la strategia scelta da Granarolo, numero uno in Italia nel latte fresco, la più grande realtà industriale presente nel biologico con il latte e una gamma completa di latticini, dallo yogurt ai formaggi. «La nostra storia di cooperativa agricola ci ha permesso di costruire un solido rapporto con gli allevatori, che indubbiamente ci ha avvantaggiato», dice il presidene Luciano Sita, «oggi che il mercato cresce rapidamente, noi siamo in grado di programmare lo sviluppo della produzione anche a lungo termine, incentivando la conversione al bio degli allevatori già nostri partner. Ad esempio stiamo concordando nuove forniture in aree collinari, dove l?ambiente naturale è particolarmente vocato, e la produzione biologica può trasformarsi in fattore di rilancio del territorio, magari combinato con l?agriturismo?. Completamente diverso il caso della Plasmon, leader negli alimenti per bambini, controllata dalla multinazionale inglese Heinz. Plasmon ha lanciato recentemente una linea di omogeneizzati con il marchio BioDieterba. L?azienda però è tutt?altro che un outsider del mercato bio: infatti controlla dal 1998 la Fattoria Scaldatole, dove già da qualche anno aveva una quota del 50%. L?acquisizione è stata per la Plasmon un modo ?leggero?di entrare nel settore, senza rischiare la propria immagine: non a caso i marchi sono rimasti separati, e la gestione produttiva e commerciale di Fattoria Scaldasole è autonoma. L?azienda era stata fondata nei primi anni ?90 da Marco Roveda, architetto milanese che insieme alla moglie Simona si reinventò vita e lavoro trasferendosi a Monguzzo (Co), dove cominciò a produrre yogurt biodinamico con il latte di un manipolo di vacche coccolate e chiamate per nome. Il sentimento però andava di pari passo con tecnologie d?avanguardia e standard igienico-sanitari che – per fortuna – non avevano nulla a che vedere con le antiche stalle. In Italia non c?era ancora la legge sul biologico, per cui l?azienda si fece certificare i prodotti con il marchio tedesco Demeter, tra i più rigorosi sulla piazza europea. Inizialmente vendeva solo nei piccoli negozi, poi l?onda del successo aprì le porte dei supermercati, dove oggi è presente non solo con lo yogurt, ma anche con il latte, il burro e le spremute di agrumi. «Credo che il successo sia arrivato soprattutto perchè il prodotto era buono, migliore di molti concorrenti», spiega il direttore marketing di Fattoria Scaldasole, Renato Quartesan, «siamo riusciti a ottenere una qualità superiore alla media grazie non solo alle materie prime, ma anche a processi produttivi molto evoluti, dimostrando che natura e tecnologia possono andare d?accordo».


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