Non profit
Africa addio. Anche Bono delocalizza
La linea di moda solidale venduta a Vuitton. Che la porta in Cina
Il leader degli U2 ha messo 20 milioni di dollari nell’avventura. Ma alla fine ha dovuto arrendersi. I Paesi subsahariani scelti per produrre i capi della nuova linea, avrebbero
tradito le attese
«Ogni viaggio comincia in Africa». Anche se a volte finisce per riparare in Cina. Non ci sarebbe nulla da obiettare, se non fosse che di mezzo c’è Bono degli U2 e la sua collezione di moda non profit, nata con la missione di «rivitalizzare l’industria dell’abbigliamento africana». Nel 2005 la rockstar ha fondato con la moglie Ali Hewson il marchio di moda Edun (che si legge “Eden”) con l’obiettivo di portare i capi “made in Africa” sulle grandi passerelle e dare nuovo impulso all’industria dell’abbigliamento a sud del Sahara, migliorando così «le condizioni di chi vive nei Paesi in via di sviluppo». «Trade, not aid» è la ricetta per l’Africa che Bono ripete a ogni intervista, ovvero: commercio invece degli aiuti che alimentano l’assistenzialismo.
Ma durante le recenti sfilate di lancio della collezione primavera-estate 2011 si è scoperto che la maggior parte dei capi di Edun sono prodotti in Cina. La moglie di Bono si è giustificata ammettendo di essere stata «ingenua» rispetto a quello che è necessario «per avere successo nel campo della moda». «All’inizio eravamo concentrati solo sulla missione sociale, e non abbiamo pensato a come sarebbe stato difficile ottenere la qualità dei prodotti», ha detto.
All’inizio i capi di Edun erano tutti prodotti in Africa, grazie ad accordi siglati con agricoltori del Nord dell’Uganda, che fornivano il cotone, e con laboratori di produzione in Tunisia, Tanzania e Kenya. Poi però si sono verificati problemi con la lavorazione dei capi e con la loro consegna: le navi hanno cominciato ad arrivare in ritardo e i rivenditori si sono sempre più lamentati del taglio e del design. Come se non bastasse è arrivata la recessione e, da un picco di centinaia di negozi convenzionati nel 2006, si è passati ad appena 67 punti vendita in tutto il mondo.
I due coniugi si sono chiesti più di una volta se non fosse il caso di gettare la spugna, dopo aver messo 20 milioni di dollari nell’attività, e hanno deciso di vendere il 49% alla holding francese LVMH, che detiene il marchio Louis Vuitton. Non è un caso che la coppia sia protagonista dell’ultima campagna pubblicitaria delle famose borse, con foto di lui e lei che sbarcano da un piccolo aeroplano vecchio stile nella savana sudafricana e sotto uno slogan: «Ogni viaggio comincia in Africa». A premere per la delocalizzazione in Cina è stato il direttore esecutivo della LVMH, Mark Weber. Ora solo il 15% è made in Africa. Business is business, anche a partire da una nobile idea.
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