Non profit

Perché i Millennium goal c’entrano con la nostra vita

Editoriale

di Giuseppe Frangi

È una stagione questa in cui non sembra esserci più spazio per pensieri e decisioni coraggiose. È la stagione degli alibi, degli obiettivi rimandati o messi nel cassetto, della paura che chiude le strade e fa rintanare le persone in loro stesse. È la stagione dello stand by, dell’attesa di tempi migliori, dello scetticismo sul presente che rischia di trasformarsi in pietra tombale sul futuro. Le uniche dinamiche che segnano la cronaca e la società sono dinamiche rissose, di egoismi contrapposti, che si giocano su fazzoletti di terra. Conflitti senza nessuno orizzonte, se non quello del recinto vicino. Non è che tutta la vita vada così: il quotidiano che incontriamo, grazie a Dio, è spesso fatto di un’altra pasta. Ma è il pensiero sulla vita che va in questa direzione. Leggendo la bella intervista di Marco Dotti a Miguel Benasayag, il filosofo che ha denunciato «le passioni tristi», si resta spiazzati da una sua idea, che in fondo dovrebbe essere del tutto acquisita. Dice Benasayag «che gli insegnanti devono imparare a resistere all’utilitarismo sviluppando pratiche pedagogiche che rifiutino di formattare gli allievi come semplici risorse umane». In che modo? «Costruendo meno situazioni virtuali nell’insegnamento e creando dei rapporti con la vita e non soltanto con dimensioni astratte, economiche o produttiviste. Perché la vita supera largamente l’economia e la produzione, i suoi orizzonti sono immensamente più ampi». In fondo Benasayag ci sta dicendo un’ovvietà. Eppure è un’ovvietà che da tanto abbiamo smesso di “pensare” e fare nostra. Magari siamo capaci di una pratica generosa che s’avvicina a quel che Benasayag si augura. Ma non sappiamo più “dirla”, non sappiamo più farne un fattore di coscienza, di visione del mondo e della vita. È tutt’al più buon istinto. Non diventa conoscenza. «Più progredisci in conoscenza, più il mondo ti tocca», conclude Benasayag. C’è da dedurne che, in caso contrario, alla fine, il mondo e la vita non ti tocchino più. Ed è questo il vero rischio che la nostra società oggi corre. È una sorta di atrofizzazione del cervello e del cuore, che ci fa tenere lo sguardo basso, al riparo da ogni ideale. Che cosa può liberarci da questa inconsapevole prigionia? C’è una parola chiave che oggi è stata svenduta al basso mercato delle mode: è la parola desiderio. Oggi i desideri sono indotti e subito esauditi. La logica produttivistica pensa a tutto, e grazie al low cost non esclude quasi più nessuno. Ma questi sono caricature del desiderio. Invece sono altra cosa i desideri e scaturiscono da quell’ingenuità, da quella semplicità originale di cui ogni persona è costituita. Niente di speciale. Desideri normali. Ad esempio, il desiderio di giustizia, che non c’entra con il legalismo e con i tribunali. È il desiderio di una vita giusta per sé e per tutti: quello che ci fa dire che l'”ingenuo” auspicio che nel mondo la povertà venga combattuta e arginata è un qualcosa per cui val la pena spendersi, pur nella consapevolezza delle difficoltà e forse anche dell’irraggiungibilità di questa speranza. Questa copertina di Vita nasce sotto questo segno. Gli obiettivi del Millennio sono ardui. Ma la vera tragedia sarebbe che nessuno desiderasse più che si realizzino.

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