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Professori, un’idea per voi: Insegnate la gratuità

Parla Miguel Benasayag, filosofo ascoltatissimo. Ma controcorrente

di Marco Dotti

«Questa è la sfida: rifiutarsi di formattare gli allievi come semplici risorse umane. Andare oltre i confini assegnati. Aprire ai ragazzi gli orizzonti della vita» La nostra è l’«epoca dei grandi proclami, delle notizie terrificanti e degli atti d’accusa». Eppure, osserva Miguel Benasayag, tutti questi discorsi non solo non conducono a nulla, ma neppure ci toccano più, tanto sono distanti dalla vita. Quando usiamo grandi parole, spiega Benasayag – filosofo e psicoanalista di origine argentina, trapiantato da molti anni a Parigi, tra i più attenti osservatori dei problemi dell’infanzia e dell’adolescenza -, quando ci rivolgiamo ai grandi discorsi, ci condanniamo anche a fare il contrario di ciò che quelle parole affermano o, quanto meno, a fare qualcosa che non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con ciò che realmente significano. Contro la mortificazione che orienta l’individuo contemporaneo verso un fondamento nichilista. In attesa di ascoltarlo a Torinospiritualità, dove il 26 settembre presenterà un intervento dal titolo «Gratis, ma non inutile», Miguel Benasayag ha accettato di rispondere alle domande di Vita.
Vita: Ha ancora senso, oggi, in questo contesto, parlare di “gratuità”?
Miguel Benasayag: Il pensiero della gratuità è una porta, e non la minore, per accostarsi alla comprensione di quanto sia complessa l’esistenza. Concentrarsi sul dono non è però un modo per aderire a una morale astratta di bontà e giustizia, ma una forma pratica per orientare le nostre scelte, per dirigerci verso una esistenza più giusta e felice, per impedire che all’altro si possa paradossalmente donare solo la morte, e non la vita. Donare significa sacrificare parte delle proprie ricchezze, rinunciando a parte del proprio possesso, garantendo al sistema di non divorarsi da sé. Noi però, in quanto uomini della cosiddetta tarda modernità, siamo parte di una società che per la prima volta nella storia pretende di non essere in nulla e per nulla dedita al sacrificio, una società che si dichiara e si vuole integralmente razionalista. Il sistema del sacrificio, però, non può essere superato semplicemente ignorandolo, come pretendono i “nostri” economisti, per questa ragione il dono risiede ancora – rimosso e negato a parole – sotto forme e modalità sinistre, pericolose e perverse.
Vita: Tra queste modalità perverse possiamo includere l’autodistruzione e lo stordimento, che paiono l’unico orizzonte possibile per molti individui travolti dalla crisi?
Benasayag: La distruzione si trova al centro del meccanismo della crisi, è normale che tale funzione colonizzi gli individui. Sotto questo punto di vista i comportamenti che conducono allo sviluppo della violenza sono la manifestazione concreta della crisi. Ed è proprio per questo che bisogna avere una visione d’insieme che non separi in modo artificiale la vita delle persone dal contesto sociale ed antropologico nel quale vivono, in modo che le persone sviluppino la loro singolarità e non il loro individualismo. Essi devono infatti sentirsi e rappresentare una sfaccettatura della loro epoca e della storia, non considerarsi ammassi di cellule prive di centro e senza comunicazione con l’esterno. L’individualismo estremo è l’ultimo lusso dei Paesi ricchi.
Vita: Non le sembra vi sia una tendenza generale all’apatia e all’autismo sociale e il conflitto venga invece accettato solo quando assume tratti autodistruttivi e non trasformativi?
Benasayag: Personalmente penso che ci sia una perdita di potenza a tutti i livelli. Questa diminuzione di potenza assume la forma di una perdita della dimensione del conflitto. Dobbiamo comprendere il conflitto non solo come lotta e violenza. La lotta è certamente una dimensione particolare del conflitto, non l’unica. Il problema, però, risiede nel fatto che la nostra società convoglia tutte le dimensioni del conflitto nella lotta. Può sembrare un paradosso, ma per diminuire la violenza in circolazione bisogna al contrario sviluppare la molteplicità dei conflitti, sottrarli a quell’unica dimensione.
Vita: Crede che dal mondo giovanile possano nascere nuove forme di lavoro politico e di rapporto “etico” con il pianeta e con l’altro da sé? È possibile tornare al futuro come promessa, e non come “minaccia”?
Benasayag: Credo che per produrre e costruire nuovi legami con la società e con l’ambiente – legami che vadano nella direzione della gioia, non della tristezza – non ci sia bisogno di ricostruire l’immagine di una promessa di futuro. Dobbiamo trovare un motore diverso che orienti i nostri ragazzi e che funzioni in modo immanente, senza far riferimento a illusioni (il sol dell’avvenire) o a minacce (l’apocalisse prossima ventura). Da questo punto di vista, la perdita di futuro non è affatto una catastrofe come in tanti pensano. In questa direzione possono operare gli insegnanti. L’insegnamento al giorno d’oggi è diventato un campo di conflitto fondamentale, bisogna che gli insegnanti imparino a resistere all’utilitarismo sviluppando delle pratiche pedagogiche che rifiutino di formattare gli allievi come semplici risorse umane. È una sfida, ma se questi riuscissero ad esser vincenti gli insegnanti stessi ne uscirebbero straordinariamente valorizzati agli occhi di tutta la società.
Vita: In che modo gli educatori possono agire per smontare nella mente dei ragazzi il principio del “tutto e subito” se all’esterno della scuola il mondo va nella direzione contraria?
Benasayag: Bisogna che gli insegnanti ri-territorializzino il loro lavoro, ciò significa costruire meno situazioni virtuali nell’insegnamento e creare dei rapporti con la vita e non soltanto con dimensioni astratte, economiche o produttiviste. Perché la vita supera largamente l’economia e la produzione, i suoi orizzonti sono immensamente più ampi. Purtroppo si ha la tendenza a reprimere tutto quello che si sviluppa oltre i confini che ci sono stati assegnati. Ma noi abbiamo il compito di andare oltre, in ogni caso. È la vita che ce lo chiede. Più progredisci in conoscenza, più il mondo ti tocca.

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