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Come diventai capoclasse “a rotelle”

Vita tra i banchi: i ricordi di Franco Bomprezzi

di Franco Bomprezzi

Il mio primo giorno di scuola, forse, è stato il primo giorno di festa. Ero come gli altri, in mezzo agli altri. Ero un ragazzino felice, la scuola mi faceva sentire normale Il primo giorno di scuola. Per me alle medie. Non alle elementari. Ero troppo fragile per affrontare la campanella in prima elementare. Veniva a casa mia un maestro, dolce ed esigente al tempo stesso. Ero a Firenze, al tempo delle elementari. Perché non ne ricordo il nome? Mi dispiace adesso, e molto. Non ho più neanche i genitori a ricordarmelo. Eppure ho presente il suo arrivo a casa, la sua pazienza nell’indirizzare la mia manina, piccola, sperando che io riuscissi in qualche modo ad afferrare la penna, quella che aveva ancora il pennino. Era il 1957, penso di non sbagliare. Avevo cinque anni.
Alunno con disabilità? No, per carità. Le parole non esistevano. Ero solo un bambino “malato”, con le ossa fragili, anzi, le ossa “di vetro”, che era più carino. Impossibile frequentare la scuola pubblica, perché in quegli anni la mia destinazione più frequente era la clinica, si chiamava il “Bobolino”, sui primi tornanti che dalla piana di Firenze portano verso piazzale Michelangelo. Vedevo gli alberi dal sedile posteriore della macchina. Gli alberi e il cielo, perché ero semisdraiato, non potevo neppure stare seduto per bene, con quel gesso, che mi faceva assomigliare a una piccola mummia, bendato dal torace alla punta del piede sinistro, tutto dritto, perché, allora, l’articolazione dell’anca non c’era. E il maestro, quel bravo maestro, veniva dunque a casa. Mi trattava con una certa fermezza, non mi faceva sconti, perché aveva capito che il cervello, in qualche modo, sembrava funzionare normalmente, anzi, forse, un po’ di più. Non era vero, ero normalissimo, ma potevo sfruttare la scia di mio fratello, due anni più grande. Lui compitava sul quaderno, leggeva, scriveva, copiava i numeri, le aste, l’alfabeto, e io sfruttavo la situazione, spesso facendo finta di niente.
Ecco perché il mio primo giorno di scuola, da alunno “disabile” è stato alle medie. A Chieti, in Abruzzo, dove nel frattempo la mia famiglia si era spostata, sede assegnata a mio padre, ufficiale della Guardia di Finanza, e dunque soggetto a trasferimenti, che lui, con grande umanità, seppe sincronizzare, a scapito della carriera, tenendo conto delle mie esigenze di studio e di socializzazione. Secondo me ne ha fatto le spese Marco, mio fratello, più grande di me di ben due anni. Per lui tutti i passaggi sono stati un trauma, per me no, erano perfetti.

Nella città della camomilla
Ricordo dunque le medie. Più o meno. Scuola media “Chiarini” di Chieti, città della camomilla, Abruzzo sonnolento ma colto, civile, tollerante, accogliente. «Forti e gentili» gli abruzzesi, secondo D’Annunzio. Vero, verissimo. Io ricordo ancora lo stupore di quell’impatto con i compagni di classe. Fabrizio, Ernesto, Bruno. I miei primi amici “normali”. Ma qui per la prima volta ero io a entrare nella normalità.
Non c’erano leggi né regolamenti, solo il buon senso, e i bidelli che ti accompagnavano in bagno. Gli insegnanti che mi utilizzavano come stimolo per gli altri. Ero sveglio e petulante, un po’ saccente, con una pronuncia fiorentina quasi perfetta, che in Abruzzo doveva suonare strana. Poi, piano piano, ho imparato il dialetto, mi sono “integrato”. Se ben ricordo sono stato nominato quasi subito capoclasse. Ridicolo ma importante, sopraintendevo, nell’intervallo, all’ingresso e all’uscita dei compagni dall’aula, mettendo la mia carrozzina di traverso sulla porta. Fu lì che mi innamorai per la prima volta, di una madonna con la treccia, una ragazzina splendida dagli occhi enormi, che non mi degnava di uno sguardo, ovviamente. Fu lì che creai la mia prima squadra di amici, tutti per uno, uno per tutti.
Avevo una carrozzina ridicola, l’adattamento di un passeggino da bambini, perché non potevo ancora stare seduto per bene, l’anca non si articolava, dunque ero semisdraiato. Non mi ricordo di aver provato paura, né sensazione di isolamento. Solo quando c’era l’ora di ginnastica, forse. Allora rimanevo in splendida solitudine, in palestra non era il caso di andarci.

In mezzo agli altri
Leggevo, libri su libri. In primavera era splendido, perché potevo stare nel giardino della vecchia scuola, inserita nel punto più bello della città, la Villa Comunale (giardini pubblici e alberi stupendi). Sentivo ronzare le api, inseguivo i miei pensieri, ascoltavo le risate e le grida provenienti dalla palestra. Poi suonava la campanella e si tornava in classe.
Ero un ragazzino felice, la scuola mi faceva sentire normale, nessuno mi ha mai preso in giro, oppure io non me ne sono accorto. Per me andare a scuola era fantastico, studiavo e parlavo, ascoltavo e respiravo a pieni polmoni gli odori della scuola, quel sedimento di generazioni che si appiccica alle pareti e ai banchi. Il mio primo giorno di scuola, forse, è stato il primo giorno di festa. Ero come gli altri, in mezzo agli altri.


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