È spazio smangiato ai bordi, boccone lacerato da una convulsione di denti. È terra di residuo questa su cui avanzo, zolla rigettata da una natura indigesta. Qui a L’Aquila tutto se ne sta nella disparte di chi ha troppi lividi addosso per sopportare una carezza, troppi ammacchi dentro per disporsi all’ingoio che sazia la pancia e nutre la vita.
Vicoli, mura, lastricato e cemento stanno al bordo di un piatto che non ha più tavola né commensali. Vorrei prendere posto davanti alla Basilica di Collemaggio, sedermi a incrocio di gambe e di cuore, legarmi un bavaglio bianco attorno al collo e spalancare la bocca, addomesticare le mandibole a un morso che sia tenero e santissimo. Perché pure rachitico d’erba e grasso di crepe questo piazzale tiene un condimento sacro sparso sopra, un’olio caduto da fronte crocefissa, uscito da fede spremuta fino all’ultima preghiera.
Lo sa bene Rita, aquilana colpita da quella bastonata solenne che il 6 aprile del 2009 scatenò la furia dei suoi colpi addosso alla città. Lo sa bene lei, quale razza indomita di rosari si è aizzata dentro le bocche della gente, quale specie di novena stridula e tarantolata ha fatto tremare le labbra e sbattere i denti affinché fosse possibile sentire in corpo l’onda d’urto di Dio. Quel contraccolpo capace di rintronare la paura, azzittire la disperazione e lasciare che lo strillo della speranza si facesse unico suono e primo sole del nuovo giorno. È Rita che adesso accosta i miei passi, si fa vicina di piede e respiro in questo andare per L’Aquila, in questo procedere sudato per eccesso di silenzio. Si parla a voce bassa, in un bisbiglio da camposanto, nell’afonia del vivo che rispetta il morto e ne pareggia il dire. Perché, attorno ogni cosa pare esistere soltanto nello sbuffo della polvere, nel sudore della zappa che si strizza la fatica di una sepoltura e la lascia sgocciolare ai piedi delle strade, agli alluci degli incroci che bucano la calza per uscire al sole.
Ci sono cumuli di macerie a ridosso delle mura, ematomi che sognano il colpo e russano il dolore. Calcinacci stipati dentro l’offesa di profughi senza dimora, tagli nella pietra, lacerazioni nel cemento e ovunque troppe ferite sottratte alla sutura. Arriviamo in piazzale De Paoli, un cerchio di terra collassata, cedimento netto e diagramma piatto di quello che fu il cuore di un parco giochi. «Qui ci portavo mio figlio». Rita parla a voce rotta, dice a scosse brevi, ripete il verso che fece il suolo prima di inghiottirsi lo scivolo, la giostra con i suoi seggiolini, l’altalena con le sue corde e il suo volo a mezz’aria.
Mi avvicino a questa fossa d’infanzia, tendo occhio e orecchio al fondo. Dalla cozzaglia di lamiere colorate pare levarsi la nenia di una filastrocca, la conta di un nascondino interrotto ma non ancora uscito allo scoperto. Gioco sospeso ma non concluso, attaccato ma non sconfitto. Alzo la testa, scateno lo sguardo al cielo e lo incito ad abbaiare domanda. Cosa mi vuole dire questo gioco in attesa? Forse che se le mie parole tenessero calce nelle lettere e malta nella punteggiatura avrebbe senso pieno stendere frasi sopra il suolo e fare dell’alfabeto un cemento a presa rapida. Allora chiederei a Cristo di moltiplicarmi le mani come fece con il pane e con i pesci affinché io possa muovere le dita a migliaia e scrivere nell’efficienza di un popolo intero. Popolo fatto di uomini presenti agli uomini, complici di uno stesso bisogno, fratelli di un’urgenza che vuole ricostruire.
Non si può tollerare il distacco dal dovere di esserci, non si può sopportare la ritirata della coscienza davanti al guasto di una vita che domanda riparazione. Seguo la traiettoria della mano di Rita, la direzione del suo indice puntato ai piani alti del mondo. Vuole che io guardi il Palazzo del Comune, la sua torre rimasta in piedi a reggere un orologio fermo. Un tempo bucato nei palmi, corroso dal chiodo di un’ora che non vuole più girare. Le tre e trentadue, attimo del sisma. Istante definito nelle cifre ma irrisolto nei fatti. Dopo la gestione responsabile delle emergenze, il precipitarsi di soccorsi immediati, la rincorsa politica al traguardo del mattone ultimo per le new towns, ecco avanzare la cavalleria della dimenticanza. Risuona lo zoccolo del puledro smemorato, avanza il calpestio della solita promessa che si rapa a zero la criniera prima di mostrarne la mancata doratura. Così nessuno potrà accusarla di annodare bugie al vento o districare menzogne in corsa.
Troppi ancora gli edifici sventrati, gli squarci grandi che aprono finestre feroci. E dalla strada puoi vedere l’intimità di una casa che implora il ritorno di chi le viveva dentro. Altrimenti sarà costretta ad inventarsi fantasmi contro l’assenza, voci da magra compagnia. Rumori tutto suono e niente carne.
Più cammino e più mi aumenta la convinzione di quanto L’Aquila sia bella. Cresce assieme alla contrazione dei polpacci, ad ogni assesto di passo in terra, questa certezza di meraviglia attorno. Pure così resiste l’incanto di monumenti e palazzi, anche con le infinite scacchiere di tubi che nel reggere il vuoto lo rammentano, nel sostenere il prodigio gli giocano partita contro.
Serve la stessa rettitudine del bello che non discrimina nulla, nemmeno la maceria. E s’impunta a prendere residenza persino dove il santo sfolla e l’angelo fugge. Sì, è necessaria un’attrazione di carità, un richiamo di misericordia per occupare con ostinazione la disfatta e restaurarla in dimora da risorgimento. Agli aquilani questo talento non manca, lo hanno dimostrato nel tenere i pugni stretti sopra le carriole durante le domeniche trascorse a levare massi dalle strade e tegole da sotto i piedi. Trascinavano quei carretti riempiendoli col carico della speranza, in ogni manciata di pietre raccolte ci stava il guadagno di un metro quadro libero. Ripulire lo sfacelo, spazzare il disastro lontano significava disporre la città a un ordine distinto, a quell’aspetto degno di accogliere la vita in tutto il suo ritorno.
Penso a cosa dev’essere stato tenere tra le mani i resti delle proprie case, stringere il peso di ogni singolo distacco e mantenere il muscolo, non mollare il cuore sotto il fardello dell’abbandono. Sfida che una volta vinta ripaga tutti i battiti persi. Me lo conferma la pulsazione piena e vivissima che arriva dal fondo del corso centrale, dove il Bar Nurzia si fa tuffo di sangue al petto con il suo vociare di clienti intenti a degustare un’aritmia da rinascita assieme al caffè.
Rita m’invita al sorso di questa vittoria tostata. Ce la beviamo qui, al bancone di un locale che per primo ha trovato il coraggio di riaprire alba e battenti dopo il tramonto del terremoto. L’8 dicembre scorso lo storico Bar Nurzia si è rimesso sulla careggiata della speranza sfidando fosse etiche, buche burocratiche e un futuro sbarrato. È un caffè dal chicco forte il suo, un caffè che si è battuto per il ritorno al sorso quotidiano, alla colazione di ogni mattina, al motivo di un Buongiorno scambiato tra la gente. È un caffè che ci ha creduto. Uno che ha lottato duro. E alla fine ha vinto.
Negli ultimi mesi altre attività hanno seguito il suo esempio e oggi il magone si sposta dagli occhi nell’osservare il macellaio che pesa le sue fettine di carne, il ristoratore che segna il menù del giorno sulla lavagna, il tabaccaio che apre la nuova stecca di sigarette e consegna il pacchetto alla cliente. Sono punti di esistenza che necessitano linee di congiunzione per farsi tracciato, mappa concreta di rimpatrio alla vita. Vita che desidera piantare bandiera qui, nella città che le è propria, nella terra che le appartiene. Altrove no, altrove la sua bandiera resterebbe ferma. Piegata bassa senza vento.
Diventa dovere di tutti gonfiare le guance per quel soffio supremo capace di riconsegnare movimento e quota a L’Aquila. Dobbiamo se non riuscirci appieno, almeno tentarci. Fino a che avremo nei polmoni l’aria e nelle bocche il fiato.
Intanto spendo respiro grande davanti alla cattedrale dei Santi Massimo e Giorgio, dove il sole s’agita a turbine e spiffero sopra le rovine delle colonne, il crollo dell’altare. E la luce allunga i suoi fasci a smuovere le pietre, a salvare dall’oblio la croce del Cristo e di tutti i nominati al sacrificio.
Resto dietro a Rita, seguo l’errore ottico della sua andatura, un incedere che si scontorna via via che ci si allontana dal centro storico, dal luogo che fu culla e dondolio di care abitudini e familiari incontri.
Siamo nello slargo di Villa Comunale adesso, siamo nel congedo di un abbraccio e nella promessa di un racconto che verrà scritto. Rita mi guarda. Lei non vuole che io dimentichi. Io devo e voglio ricordare. Ma memoria e parola non bastano. Ci vuole il fare, l’agire di mani e braccia, lo spintone di coscienza e cuore. Che magari queste minuscole baite di legno che sono negozi improvvisati, magari questi rifugi inventati dal coraggio di chi prima del terremoto trattava scarpe o vestiti e ora vende anguria fresca e souvenir, magari loro sì. Loro saranno felici.
Felici non solo per il sostegno ricevuto. Ma anche e soprattutto per il dono che ci avranno reso nell’insegnare a noi tutti il come profondo e il perché vero del chiamarci Uomini.
Saluto L’Aquila, dico grazie alla sua forza, arrivederci alla sua bellezza. Che si risollevi a quota di volo, col favore del vento, dietro le indicazioni del cielo. E per obbligo di direzione sarà certa la vita.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.