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Un'intervista a Ivo Lizzola, docente ed ispiratore di Educa

di Giuseppe Frangi

Il rischio è l’aridità. E il didatticismo. L’obiettivo è quello
di comunicare i contenuti dentro un’esperienza. Un vademecum per chi si appresta a tornare sulla cattedra
Secondo Leo, studente e protagonista del fortunatissimo romanzo di Alessandro D’Avenia, i professori sono «una specie protetta che speri si estingua definitivamente». Lo pensa prima della folgorazione con le lezioni di quel supplente di storia e filosofia che gli farà sperimentare una prospettiva del tutto imprevista. Ma, a guardare gli aridi numeri, non si può dire che quella prima sensazione di Leo non avesse fondamento. I numeri dicono che sulle cattedre siede una maggioranza di prof di età sopra i 50 anni: ci sono 35mila prof di 56 anni e poco più di duemila di 30 anni. Loro, i trentenni, sono quasi tutti fuori dalla porta, ad attendere come ogni settembre la chiamata, se mai arriverà. Qual è il rischio di questo gap generazionale? Ivo Lizzola, preside della facoltà di Scienza della formazione a Bergamo, ispiratore dell’edizione di Educa ormai alle porte (il tema è quanto mai in tema: «Generazioni») ci ha ragionato a lungo. E ne ha voluto ragionare anche con Vita, alla vigilia di quest’anno scolastico che si annuncia pieno di tensioni e complicato.
Vita: Sempre più in salita la vita dei professori. La distanza di età con chi sta sui banchi può diventare un problema?
Ivo Lizzola: Può diventarlo, ma per un motivo diverso da quello che si può pensare, perché viene a mancare la dialettica tra diverse generazioni di insegnanti. Oggi nella scuola italiana c’è il grande buco dei ventenni e dei trentenni. Lo scambio e il confronto sono esperienze educatrici che poi si travasano a vantaggio di tutti anche nella pratica quotidiana in classe. Così c’è un oggettivo impoverimento che però non può spaventare più di tanto. Non è questo il vero problema.
Vita: Qual è allora…
Lizzola: È la tentazione antieducativa. Un sottrarsi da parte dell’adulto insegnante dal proporsi come esperienza e non solo come trasmettitore di conoscenze. È una distanza che è assai più rischiosa di quella generazionale. Nella dinamica dell’insegnamento sia la disciplina che il contenuto prendono forma nel contesto di un’esperienza. Oserei dire attraverso il corpo e il modo di porsi degli insegnanti, qualunque età abbiano. La lontananza non è un problema anagrafico.
Vita: Ma c’è una diversità di sensibilità e di riferimenti con cui fare i conti…
Lizzola: L’educazione è sempre un tempo di mezzo. Comunque sia il mio tempo non è quello del mio allievo, che avrà un tempo altro. Io sarò sempre fuori dal suo tempo sociale. Io non ci sarò più. Proprio per questo non posso limitarmi a una comunicazione di contenuti, ma devo trasmettere quei contenuti dall’interno di me stesso. I contenuti vivono perché io li ho vissuti. Da questo punto di vista la generazione degli insegnanti cinquantenni è più allenata. Sa che l’avventura educativa attecchisce se genera un nuovo inizio. E una prospettiva didatticistica, pur corretta, non sarà mai in grado di suscitare questo nuovo inizio in chi è seduto sui banchi.
Vita: Che cosa intende per didatticismo? Anche l’insegnamento richiede una tecnica…
Lizzola: Il didatticismo è la deviazione della didattica. È la didattica ridotta a orizzonte ultimo, strumentale ad una trasmissione di contenuti senza che nessuna esperienza entri in gioco. Una comunicazione incapace di accendere nessuna scintilla. Ci si limita all’atto prescrittivo della trasmissione di un contenuto, senza veicolare mai la dimensione di esperienza legata a quel contenuto. Invece anche l’insegnante di fisica può spiegare il terzo principio della termodinamica trasmettendo l’idea di un’avventura umana. Non si tratta di colpire il ragazzo con comunicazioni suggestive, ma di consegnargli una responsabilità, un potere sulla realtà.
Vita: E quelle migliaia di professori che anche quest’anno stanno sulla porta ad attendere la chiamata, che esperienza possono trasmettere?
Lizzola: L’esperienza non è determinata dalla condizione più o meno difficile che si vive. Piuttosto il prof precario patisce la discontinuità. Una classe ha bisogno di riferimenti sufficientemente continui. Se questi diventano materialmente impossibili, l’insegnante elabora una dimensione tutta strumentale della sua presenza, arroccandosi sulla semplice trasmissione dei contenuti. Ma gli ultimi tagli hanno aperto altri problemi che mi preoccupano.
Vita: Quali?
Lizzola: Le classi a 35 allievi nelle scuole dell’infanzia. Sono classi in cui si accumulano tante differenze e a chi insegna resta impossibile svolgere quella funzione fondamentale che è quella della ricomposizione e del rilancio.

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