Welfare

Sahara-Pordenone, carovana di sola andata

In Friuli, a tu per tu con la più grande comunità Tuareg italiana

di Redazione

«In Niger diciamo che l’ascensore è come un secchio che finisce in fondo al pozzo», racconta Assalo, 36 anni, madre di cinque figli. Ecco perché, appena arrivata a Pordenone, nel 2005, la donna aveva il terrore di salire in quella specie di “secchio” gigante e, per lei che aveva vissuto fino allora in una tenda nel deserto, anche le scale facevano un certo effetto. Oggi sono gesti quotidiani, da quando lei e suo marito Elhadji Oubana, detto Haddoe, si sono trasferiti al sesto piano di un palazzo di case popolari.
In tutta Italia i tuareg sono solamente cinquanta e a Pordenone vive la comunità più grande, con cinque famiglie e alcuni single, per un totale di trentasei persone. Di tredici bambini, nove sono nati nel capoluogo friulano. La maggioranza dei tuareg vive in Niger, Mali, Algeria, in parte in Libia e Burkina Faso. Sono gli europei a chiamarli così, o “uomini blu” dal colore indaco del turbante, ma loro preferiscono dirsi imuhar, che significa uomini liberi in lingua tamashek.
«La cosa più difficile è vivere seguendo un orologio», dice Haddoe, «ancora oggi, dopo dieci anni di fabbrica e vita nel Nordest, devo fare uno sforzo per rispettare i ritmi occidentali. Da noi l’orologio si mette solo per bellezza». Eppure i tuareg sono una comunità molto integrata, apprezzata nel pordenonese. «Se decidi di vivere in un posto, devi anche saperti adattare. Se non ci riesci, non puoi rimanere», spiega Haddoe, quasi ripetendo un mantra leghista, e continua: «Nella nostra cultura l’altro non è il diverso, è qualcuno che condivide con noi la stessa casa, questa terra. È qualcuno a cui ci avviciniamo spontaneamente, senza paura». Mohamed Abety, che è stato il primo tuareg ad arrivare a Pordenone, nel 2000, aggiunge: «Per un nomade, la terra è uguale dappertutto. Ovunque ti trovi, devi saper amare e rispettare il luogo dove sei. Io sono felice se sento una buona notizia per l’Italia e mi dispiace se ne sento una cattiva, perché questa è la mia casa, ora. Certamente non è come vivere nel deserto, ma è qui che abbiamo trovato un’opportunità».

Dal deserto alle bollette
Mohammed lavora in un’industria di macchine tessili e di recente è rientrato dalla cassa integrazione. Dice: «Se le cose dovessero mettersi davvero male, torno in Niger. Non ho voglia di cercare lavoro in altri posti, fuori da Pordenone, perché non ho più l’energia di ricominciare tutto da capo». Anche Haddoe la pensa così: o il Nordest o il deserto. «Agli amici italiani di Milano, Roma, Bologna sembra strano che abbiamo scelto proprio Pordenone?», dicono. «Noi rispondiamo che qui abbiamo casa, lavoro e stabilità. Io sono venuto in Friuli perché in Veneto avevo lavoro ma non riuscivo a trovare una casa in affitto. Il primo periodo, addirittura, facevo il pendolare», ricorda Mohammed. «Anche adesso stiamo bene in Friuli, non ci sono problemi di razzismo. È normale trovare qualcuno che non accetta gli stranieri, ma il vero problema è la crisi, perché se resti senza lavoro, bastano tre mesi per mandarti fuori di testa, con l’affitto e le bollette da pagare».
Intanto la polenta di semolino, così simile a quella friulana, è quasi pronta. Assalo srotola un grande tappeto in mezzo al salotto e ci mette sopra una tovaglia. «Le donne hanno un ruolo importantissimo nella nostra cultura. Nelle tende è come se noi uomini fossimo ospiti, perché capita che stiamo mesi fuori nel deserto. È la mamma che si occupa dell’educazione dei figli», spiegano Haddoe e Mohammed. Rimanere per cena è d’obbligo: i tuareg dicono che è talmente difficile incontrarsi, che quando accade è bello passare del tempo assieme. Mangiamo seduti a terra, come se fossimo in una tenda nel bel mezzo del deserto e non dentro un palazzone giallo a Pordenone.
Il campanello suona in continuazione: sono gli amici che cercano Sidi, Timitima o Al Khassoum, i tre figli più grandi di Haddoe. Loro sono nati in Niger, mentre gli altri due, Annur e Zenab, sono “gli italiani”, nati a Pordenone. «Sarei molto orgoglioso se riuscissi a mandare un figlio all’università», dice Haddoe. «Vorrei che loro avessero una vita migliore della mia. Comunque, quando i più grandi saranno in grado di badare a se stessi e ai più piccoli, desidero tornare al mio villaggio, nella valle di Abardak, per sentire di nuovo tutta la libertà del deserto». Sidi ha appena passato l’esame di terza media e si è iscritto alla scuola del mobile di Brugnera. «Me lo ricordo il deserto. Avevo otto anni quando siamo venuti in Italia», dice. «Ora sono felice di essere qui, di poter andare a scuola, anche se non vado benissimo?».

Una fuga obbligata
Durante le ferie d’agosto, Haddoe è andato nel suo villaggio, in Niger, a consegnare del materiale per la scuola che la comunità tuareg, assieme all’associazione pordenonese “Via Montereale”, ha iniziato a finanziare nel 2005. Proprio Haddoe che dalla scuola è scappato dopo soli sei anni: «Mi sono trasferito ad Agadez perché nel mio villaggio non potevo continuare. Eravamo in tre ragazzi, ci ospitava un tutore, che a volte non riusciva nemmeno a darci da mangiare. La vita era troppo dura e un giorno abbiamo deciso di scappare: ci abbiamo messo tre giorni a piedi per tornare a casa, buttando i libri perché erano troppo pesanti. Quando mi hanno visto tornare, i miei genitori erano felicissimi. In quegli anni avevamo molti dromedari, vivevamo di pastorizia e con le carovane del sale. Gli adulti non capivano perché i bambini dovessero perdere tempo a scuola, quando avevano già tutto ciò di cui c’era bisogno».
L’avanzare della desertificazione, le siccità degli anni 80 e l’introduzione dei camion per trasportare il sale dall’oasi di Bilma verso la Nigeria hanno pian piano ridotto le possibilità di vita nel deserto. È stato allora che i tuareg hanno iniziato a emigrare. Ci si è messo anche l’uranio: per estrarlo si fanno saltare intere montagne nel deserto e si riduce lo spazio vitale dei nomadi. Dal 2007, inoltre, la ribellione guidata dal “Movimento nigerino per la giustizia” ha anche troncato le possibilità di sviluppo turistico nell’area. «Un tuareg lascia il deserto solo se è costretto», conclude Haddoe.

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