La parola bullismo è un’italianizzazione dell’inglese bully che denota una persona che usa la propria forza per danneggiare o intimorire una più debole. Per contestualizzare il fenomeno pensiamo quest’atto violento come una scena che si verifica in un ordinamento sociale e in un particolare momento storico.
I dati che emergono dalla pratica clinica mostrano un progressivo scioglimento dei legami tra le persone e tra i gruppi, un indebolimento del concetto di “legge” in tutte le sue declinazioni che causa un aumento della violenza come esasperazione patologica dell’individualità. La famiglia, primo modello di gruppo del soggetto, oggi è carente di una forte idealità di sostegno e produce soggetti solitari, che mancano della spinta al legame e allo scambio con l’altro. Le nuove famiglie sono isolate fra loro e non si rapportano socialmente al territorio.
Da un lato vi sono famiglie che presentano assenza di ruoli, appianamento delle gerarchie; dall’altro famiglie dove ognuno vive per sé, stabilendo un legame puramente funzionale con gli altri. Gruppi familiari disorientati, precariamente costituiti, che si sciolgono alle prime difficoltà o che rimangono saldamente uniti dall’odio e dal rimprovero, non riescono a trasmettere gli ideali basici della costruzione di un rapporto con l’altro.
Il bullismo si inserisce in questo contesto come una malattia del rapporto.
Occorre domandarsi perché vittima e carnefice occupano queste posizioni, perché hanno costruito questo nodo che li tiene saldamente uniti: nessuno dei due trova il modo di rinunciare a questo incontro patologico. Il bullismo è un atto che chiama in causa altri: il terzo elemento è il gruppo che, trasformato in banda, partecipa in modo attivo alla violenza o, diversamente, assiste indifferente all’aggressione, legittimando il carnefice. Il gruppo non riesce a sciogliere il nodo creatosi, non riesce ad incarnare valori di legalità e senso etico e non riesce a trasmettere l’ideale di rapporto paritario. Il carnefice mostra la sua potenza allo sguardo del gruppo e la vittima non riesce ad spostarsi dal suo ruolo di capro espiatorio. Manca ancora un elemento per la comprensione del fenomeno: lo spazio in cui la scena si svolge. Quando si tratta di uno spazio istituzionale, come la scuola, la domanda d’obbligo è: perché un contesto che dovrebbe garantire la protezione e lo scambio regolato tra gli studenti si trasforma in un territorio dell’omertà e della possibilità di agire comportamenti violenti?
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