Non profit

bp il conto, chi lo paga?

Bilancio (provvisorio) di un disastro epocale

di Alessandra Marseglia

Dopo oltre due mesi non si sa ancora quando e se si arresterà la fuoriuscita del greggio. Le uniche certezze sono i danni provocati finora. Primo fra tutti il collasso di un mercato ittico da 6,5 miliardi di dollari, che sta riducendo alla fame
la popolazione di Louisiana e Alabama Sono trascorsi oltre due mesi dall’esplosione del 20 aprile della piattaforma petrolifera Deep-water Horizon, ma al largo del Golfo del Messico è ancora tempo di bilanci provvisori. Non si arresta, infatti, la fuoriuscita di greggio dalla falla; il “tappo” inserito dalla British Petroleum nelle ultime settimane ha avuto solo l’effetto di limitare i danni, riuscendo a raccogliere 15mila dei 60mila barili che si disperdono ogni giorno nell’oceano. Secondo le previsioni più catastrofiche, una soluzione definitiva sarà raggiunta solo in autunno, con il naturale esaurimento della sorgente; quelle più rosee guardano ad agosto, grazie ad un intervento che la BP pondera da settimane e che prevede un’ulteriore trivellazione dei fondali.

Distrutto per sempre
Qualunque saranno i tempi, l’esplosione nel Golfo del Messico è già il peggior disastro ambientale causato dall’uomo che gli Usa ricordino. I danni contati fino ad ora parlano di un ecosistema distrutto per sempre, in una zona, come insegna Kathrina, già fortemente soggetta ad uragani e inondazioni. La marea nera ha toccato le coste di Lousiana, Alabama e Mississipi e minaccia presto di lambire anche le spiagge della mecca del turismo americano, la Florida. Di lì in poi Cuba e Messico sono alle porte. La pulizia delle acque, di cui è incaricata la stessa BP, non ha dato per il momento i frutti sperati soprattutto per l’incredibile carenza di tecnologie adeguate. Il disastro del Golfo del Messico ha messo in luce un’indicibile realtà: le compagnie petrolifere hanno sviluppato strumenti avanzatissimi per trivellare il terreno, ma non hanno fatto quasi nulla per mettere riparo ad eventuali errori. Secondo gli esperti, infatti, la BP riuscirà a pulire solo una minima parte del greggio; la porzione maggiore sarà eliminata dalla natura, e una terza e consistente parte rimarrà invece nell’ecosistema per secoli.
Accanto ai danni al terreno ci sono quelli alla popolazione. Ancora sulla rampa di rilancio dopo l’uragano Kathrina del 2005, Louisiana e Alabama sono gli Stati che subiranno maggiormente il contraccolpo. Sono già due mesi che il più grande mercato ittico d’America, valutato intorno ai 6,5 miliardi di dollari, è in stand by; nelle ultime settimane la stessa BP, tramite il progetto «Vessells of Opportunity», ha trasformato molti pescatori in operai, pagandoli profumatamente per occuparsi della pulizia delle coste e della salvaguardia degli animali. Ma è chiaro a tutti che il piano non può durare. A Bayou La Batre in Alabama, come in molte altre città sulla costa, il 30% degli abitanti viene dall’Asia, immigrati arrivati per lavorare come manovali nell’industria ittica, che spesso non conoscono bene la lingua da potersi riciclare in altri lavori o non hanno il Social Security che gli garantirebbe il sussidio di disoccupazione. Organizzazioni non profit locali riportano infatti lunghe file ai food bank e una crescita del 20% delle richieste di servizi sanitari gratuiti.

Spiccioli di rimborso
Dopo una lunga negoziazione con il ministro per l’Ambiente, Ken Salazar e con lo stesso presidente Obama, la BP ha acconsentito a pagare un rimborso alla popolazione di 2 miliardi di dollari. Spiccioli per un’economia distrutta per sempre. E soprattutto perché a pagarli saranno le compagnie assicurative. La BP, dal canto suo, si prepara già a riprendere le trivellazioni, in Alaska questa volta, grazie ad un cavillo burocratico che le permetterà di aprire un altro pozzo nonostante il divieto di estrazioni proclamato da Obama per i prossimi sei mesi. Nemmeno il boicottaggio delle pompe di benzina BP, messo in opera da molti americani frustrati dalla situazione del Golfo del Messico, pare efficace: da anni la compagnia ha ridimensionato notevolmente i punti vendita, dedicandosi piuttosto all’estrazione, raffinazione e vendita del greggio ad altre catene. Come fare, dunque, a punire BP? La campagna lanciata da Greenpeace pare la più sensata: ridurre quotidianamente il consumo di petrolio, limitando le auto, l’aria condizionata, il cibo esotico. Un processo più lungo e complesso che però servirà ad evitare un altro disastro come quello del Golfo del Messico.


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