Welfare

La Corte di Cassazione: no ai rimpatri di detenuti in Tunisia

di Redazione

Se mi spedissero nelle carceri tunisine?
Un’importante sentenza della Corte di Cassazione, la numero 20514, sottolinea che il governo italiano e tutte le istituzioni della Repubblica, compresi gli organi giurisdizionali, e specificamente in materia di misure di sicurezza il magistrato di sorveglianza, non possono ordinare il rimpatrio di immigrati tunisini che abbiano commesso reati in Italia, per i quali oltre alla condanna sia prevista l’espulsione, in quanto in Tunisia viene praticata la tortura «spesso durante il fermo e allo scopo di estorcere confessioni», con tecniche di tortura che vanno «dalla sospensione al soffitto alle minacce di violenza sessuale, passando per le scariche elettriche, l’immersione della testa in acqua, le percosse e le bruciature di sigaretta».
Una buona notizia per tanti detenuti tunisini, come Rachid, che così descrive la condizione dei suoi connazionali nelle carceri italiane, costretti a vivere con il terrore di non avere un futuro né in Italia né al proprio Paese: «Sbarazzarsi con l’espulsione degli stranieri sembra facile, anche se non credo che sia umanamente giusto. Per esempio ci sono molte persone che hanno la famiglia in Italia, altre che sono fuggite dalla fame e dalla miseria per cercare una vita dignitosa. Per non parlare poi delle condizioni disumane che si vivono nelle carceri dei Paesi da cui si scappa. Se mi spedissero nelle carceri tunisine ritroverei una ospitalità poco rassicurante: ci sono strutture con cameroni che possono accogliere fino a cento persone».
Compagne di detenuti: una vita di rinunce
È difficile mantenere vivi gli affetti in carcere, ma per chi ha una pena lunga è difficile anche dare alla propria compagna qualche speranza di costruire insieme una famiglia vera. Dal racconto di un detenuto, Bruno, emerge che la vita delle compagne dei detenuti è piena di sofferenze e di rinunce, tra cui anche quella ad avere un figlio: «Sono in carcere da 19 anni, io e mia moglie non abbiamo figli, quindi vedere i figli degli altri detenuti che giocano, che corrono, che si avvicinano al nostro tavolo durante i colloqui, ci coinvolge in maniera molto forte. Un giorno mi ha detto: “Sai che se io non ho potuto avere i figli che io e te avevamo desiderato, la colpa è solo tua, ma tu lo sai che cosa mi hai fatto?”».

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