Volontariato
Con i pasti alle 13 l’ospedale diventa più umano
Il modello Ifo a Roma. Parla Francesco Bevere
Un microscopio e un cuore. Due metà che si abbracciano, due metà che si fondono insieme: il microscopio sta alla ricerca come il cuore sta alla persona. Dietro questo logo stilizzato (disegnato da un ragazzo di 18 anni) c’è tutta la filosofia del professor Francesco Bevere, nuovo direttore generale dell’Ifo, sigla che riunisce il Regina Elena e il San Gallicano, due centri di eccellenza per la ricerca e la cura del cancro e delle malattie della pelle.
Dopo anni di management sanitario in altri istituti, Bevere è tornato da poco più di un anno nel luogo dove ha mosso i primi passi da neo laureato in medicina, e dove era anche stato vicedirettore sanitario. Esperienze che gli fanno dire: «Conosco bene cosa significa lavorare in un ospedale e gestire la complessità organizzativa, finanziaria e amministrativa dovendo però tenere alta la considerazione per la persona». Il logo che ha scelto ci parla di passione e sudore, di progetto concreto e di solidarietà. E solidarietà e impegno sono ingredienti fondamentali, soprattutto quando ci si trova a dover convivere con una realtà che fa ancora molta paura, il cancro.
Ma come si riesce a coniugare qualità della vita e qualità della cura? «Abbiamo avviato un percorso che associa l’impegno nelle strategie di ricerca e cura delle patologie oncologiche e dermatologiche all’umanizzazione delle cure», dice Bevere. «Riteniamo infatti che il compito di una struttura ospedaliera al servizio delle persone non sia solo quello di garantire la qualità e l’appropriatezza delle cure ma anche quello di soddisfare i bisogni inespressi degli assistiti.
Un esempio di questa attenzione è stato il cambio dell’orario dei pasti, con un menù a scelta: colazione alle 8, pranzo alle 13 e cena alle 19.30. E alle 17 pausa per il thè. Poi sono stati istituiti centri di svago culturali, come lo spazio cinema, l’angolo delle curiosità letterarie, il giornale tutte le mattine, il corso di pittura. «Abbiamo allestito una mostra con tutti i dipinti dei nostri degenti e una paziente di 84 anni, che non aveva mai toccato un pennello in vita sua, ha vinto il primo premio», commenta il professor Bevere.
«Ma le idee non si fermano qui», avverte. «Per i degenti sono arrivati anche corsi di yoga e meditazione, più attenzione al rapporto con i familiari con orari di visite meno rigidi». Iniziative rese possibili grazie alla grande generosità, in termini di tempo ed energie, e allo spirito solidale di tutto il personale ma anche di centinaia di volontari che mettono a disposizione le loro risorse e le loro capacità organizzative.
A riprova che non si tratta solo di un restyling di facciata, il Regina Elena recentemente ha ricevuto il Premio nazionale Ara Pacis proprio per questo processo di umanizzazione. «Vorrei invitare tutti a venire qui», aggiunge il direttore dell’Ifo, «per seguire giorno per giorno la sofferenza, la paura della solitudine, ancor prima che la paura di morire dei pazienti, e osservare tutti i processi che abbiamo realizzato. Se un individuo sradicato dalla propria vita in modo così brutale può contare su una realtà che lo continua a far sentire parte di una comunità, tutto questo sicuramente lo può aiutare anche nella gestione della propria malattia con effetti benefici anche per la cura».
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