Famiglia

Genova: il contro G8 ha già cambiato la città

Chi ha detto che il G8 porta solo problemi di ordine pubblico? Per ora ha provocato soprattutto il risveglio imprevisto di una città. Reportage

di Gabriella Meroni

Ci sono dei genovesi bloccati in una baita dalla tormenta di neve. Dopo giorni arrivano i soccorsi: «È la Croce Rossa», fa una voce. «Abbiamo già dato», rispondono da dentro. Anche Fabrizio De André, ricordano gli amici, amava raccontare la storiella dell?emu già detu e sorridere sul difetto endemico della sua città. Ma di certo oggi, a pochi giorni dal G8, anche lui si accorgerebbe che la barzelletta è vecchia quanto lo stereotipo che l’ha generata. La Genova tappata in casa, avara e un po’ depressa, che davanti alla grandezza del mare si rifugia dentro carrugi dove non batte il sole, che d’estate soffre il caldo, ma che mai accende il condizionatore e nei cui vicoli i mendicanti chiedono ancora ai passanti 50 lire, come vent’anni fa, sta scomparendo. E al suo posto ne spunta un’altra, irriconoscibile: impegnata, orgogliosa, generosa. O anche solo stufa di piangersi addosso. Potenza della mobilitazione, e del G8. Sarà la vetrina internazionale, saranno i cantieri che hanno riportato la Superba alla bellezza di un tempo e che fanno sgranare gli occhi ai bambini e inorgoglire i vecchi. Sarà il desiderio di capire perché il mondo si sta dando appuntamento proprio lì. O forse l’ansia di un riscatto rimandato da molte stagioni cupe, segnate dal lavoro che non c’è (fino all’anno scorso l’indice di disoccupazione in città era il doppio della media del Nord), dalla difficile trasformazione del porto mercantile in moderna cittadella tecnologica, dalla fuga dei giovani che vanno a studiare a Torino e a lavorare a Milano, e dalla chiusura, che ancora brucia, dello stabilimento dell’Ilva a Cornigliano. Sta di fatto che i genovesi stanno meravigliando Genova, soprattutto quella delle associazioni, abituata a scontrarsi con troppi «abbiamo già dato» e a organizzare dibattiti in cinema sempre troppo grandi. Tanto che c’è chi parla con enfasi, e anche questo per un genovese è strano, di svolta epocale. Una città che si risveglia La sede del Genoa social forum è nello stomaco, più che nel cuore, del centro storico: il rione mercantile dei Banchi, in piena zona rossa. Qui decine di ambulanti espongono la loro mercanzia – verdura, pesce, fiori, libri antichi – nella piazzetta di San Pietro, mentre squadre di operai finiscono di imbiancare lo splendido Caricamento. Di fronte, il porto vecchio e la Lanterna. A pochi passi, il palazzo Ducale, sede del Vertice. Dappertutto, poliziotti e carabinieri che cercano di orientarsi con mappa in una mano e radio nell’altra. «È come essere a Berlino prima della caduta del muro», dice Massimiliano Morettini dell’Arci, uno dei responsabili del Genoa social forum, che nel quartiere occupa due piani di un antico palazzo e straripa di scatoloni, manifesti e giornalisti. «Qui sta succedendo qualcosa, e la gente che prima pensava di scappare ora ha sempre più voglia di poter dire “io c’ero”». Un sondaggio online, svolto da un sito cittadino, conferma: solo il 30 per cento della popolazione ha programmato la “fuga” nella settimana del vertice, il resto rimane a casa. E tra loro, la metà scenderà per strada a vedere cosa succede. Curiosità? Moda? Non solo, conferma Silvana Piccinini della Caritas, che non scorderà facilmente l’edizione 2001 del consueto Corso di economia sociale organizzato dalla diocesi in primavera. «Gli anni scorsi eravamo sui quaranta iscritti», confessa. «Quest’anno, di botto, 360 partecipanti. Tutti zitti, quasi tutti in piedi, a sentir parlare di Tobin tax, Banca mondiale, aggiustamenti strutturali… Non era mai successo, in trent’anni che mi occupo di sociale». La riprova si è avuta mercoledì 4 luglio all’incontro sulla globalizzazione organizzato dalla rivista Limes con Piero Fassino, Luciano Violante, il sindaco Pericu e il presidente dei giovani industriali Garrone: mille persone accorse al teatro Carlo Felice in una saletta secondaria da 200 posti, coi carabinieri chiamati per timore del popolo di Seattle costretti a improvvisarsi buttafuori davanti ad anziani signori e mamme coi passeggini. Linea rossa contro i deboli E intanto, nel centro storico, anche associazioni che lavoravano fianco a fianco senza parlarsi, oggi si incontrano, e discutono, dimostrando insospettabile energia. Don Antonio Balletto è un mite e anziano professore di teologia. Vive al quinto piano di una bella casa dietro il Ducale: per raggiungerla bisogna passare su una stretta passerella sospesa su un carrugio. Una vita dedicata ai libri e allo studio, la sua. Eppure Balletto, che è anche portavoce del Forum del terzo settore della Liguria, ha da tempo dichiarato la propria “disobbedienza civile” alla zona rossa. E con lui tutti gli altri responsabili di associazioni con sede in centro, dalla comunità S. Benedetto di don Andrea Gallo al centro S. Marcellino, storico rifugio di decine di senza dimora che, nei giorni del vertice, non potranno raggiungerlo. E poi Legambiente, la Uisp, Medici senza frontiere… una rivolta senza precedenti sfociata in un manifesto per le autorità. «La chiusura del centro è una violenza perpetrata ai danni dei deboli», afferma con voce sottile, ma decisa, il professor Balletto. Spiega: «Il G8 manca di rispetto ai reali problemi dei poveri, che qui trovano assistenza grazie a noi. Quindi è legittimo sospettare che il G8 protegga operazioni economiche e finanziarie che portano vantaggio solo a pochi. Non è vero? Lo dimostrino: facciano entrare tutti nella zona rossa». Difficile, molto difficile che le cose vadano davvero così. Ma il segnale è lanciato. E il fermento della città si propaga, manifestandosi nelle risposte arrivate agli appelli del Genoa social forum e delle associazioni ad aprire le porte di case e sedi ai manifestanti anti G8. «È quasi un miracolo, per noi», racconta Gianni Ferretti della Rete anti G8, responsabile dell’accoglienza per il Genoa social forum. «Qui dove la cultura della difesa è fortissima, e dove i muratori in dialetto si chiamano ancora mazzacan, perché avevano l’abitudine di prendere a mattonate dai tetti gli estranei, la gente sta scoprendo orizzonti più ampi. Partecipa, si fa sentire. E quanto all’accoglienza, sono incredulo…». A gennaio, racconta Ferretti, le associazioni chiesero alle famiglie di accogliere i giovani partecipanti al primo incontro in vista del G8, e risposero in trenta, più o meno i genitori dei militanti. A maggio si replicò, e le case aperte furono sessanta. Oggi siamo a duecento famiglie. Stessa musica, e stesso stupore, al Centro pastorale giovanile San Matteo, dove don Nicolò Anselmi, giovane e grintoso prete motociclista, raccoglie ogni settimana un centinaio di giovani. Per l’incontro dei movimenti cattolici del 7 luglio ha trovato ospitalità a mille ragazzi nelle parrocchie e nelle case, e qualcuno tornerà anche per il 20. Ma la cosa che più lo colpisce è un’altra: «Questo G8, comunque andrà, ci ha già fatto bene», assicura. «Ormai in tutti gli angoli della città si parla di povertà, debito e Africa. Molti parrocchiani mi vengono a chiedere come fare per adottare un bambino a distanza. E alcuni ragazzi hanno preso l’iniziativa di andare in Mozambico questa estate a lavorare con i missionari». Era mai successo prima? «A Genova? Ma quando mai».


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