Famiglia
L’impresa non è di famiglia
Il 36% delle donne che non lavorano ha dato le dimissioni dopo il primo figlio
Congedi, orari flessibili, part-time in entrata. Ancora chimere, in Italia. Dove le mamme sono spesso costrette a lasciare il lavoro. Invertire la tendenza si può. Ecco come La maternità? Uno spauracchio. La flessibilità? Una chimera. Si leggono storie complesse, tra le righe degli oltre 3mila curriculum di donne che Moms@Work (www.momsatwork.it), il primo servizio di intermediazione del lavoro per madri, ha ricevuto dall’8 marzo (quando è stato inaugurato) a oggi. Storie di donne spaccate a metà, tra lavoro e figli, che avranno accolto con un certo avvilimento, in questi giorni, il dibattito (ma soprattutto la retorica) sulla proposta di concedere ai padri un congedo obbligatorio di 4 giorni. «I padri sono importanti, la loro presenza è fondamentale», riflette Cecilia Spanu, ideatrice, insieme ad Anna Zavaritt, del progetto Moms@Work, «ma se si devono spendere risorse pubbliche, non le utilizzerei per questo. Le investirei in progetti che vadano nella direzione della cultura della conciliazione e della flessibilità, sia per i padri che per le madri. Questo sì, che farebbe la differenza».
Ed è proprio della diffusione di strumenti già esistenti (part time, telelavoro, banca delle ore) e di nuove soluzioni flessibili (frazionamento dell’orario di congedo facoltativo, reversibilità della maternità anticipata, negoziazione su contratti e orari) che si è parlato al convegno «Le mamme come risorsa per le aziende», il 24 giugno a Milano, presso la sede di GiGroup, che è partner di Moms@Work.
Una recente ricerca Isfol, intitolata «Perché non lavori?», realizzata su un campione di oltre 6mila donne inattive, conferma il quadro: oltre il 36% delle donne che non lavorano, nel nostro Paese, hanno dato le dimissioni (o non hanno potuto rinnovare un contratto a tempo determinato o co.co.co.) dopo la nascita del primo figlio. Inattive ma non lavative: oltre il 50% delle intervistate vorrebbe lavorare «con orari ridotti o flessibili» o con un «carattere di reversibilità« del contratto tale da potersi raccordare ai “cicli di vita” familiari. Di nuovo le chimere. Appena il 5% delle aziende italiane oggi concede il part time in entrata: ci vogliono anni di “dedizione” per ottenere un tale privilegio.
La conciliazione, allora, parte dalla testa delle aziende, non dalla base. Ne sono convinti all’Alta Scuola Impresa e Società di Milano, che ogni anno organizza, con la Regione Lombardia, il Premio Famiglia Lavoro e che in queste settimane ha in corso la sua summer school «PerCorso per manager Family Friendly». «Ci sono i vincitori del Premio Famiglia Lavoro ma non solo», spiega Sara Annoni, manager del premio e coordinatrice didattica. «Abbiamo diverse figure chiave aziendali: i responsabili delle risorse umane, i manager della Csr e quelli della comunicazione. Tutti, per motivi diversi, sono interessati a migliorare la soddisfazione dei lavoratori e la produttività aziendale». Sì, la produttività: «Perché essere family friendly è un valore intangibile che cambia dal profondo l’azienda e riguarda tutti, uomini e donne, operai e manager», prosegue la Annoni. «Un’azienda attenta ai bisogni dei dipendenti, che accoglie la flessibilità come un valore, che formalizza progetti e strategie di conciliazione diventa più competitiva sul mercato, abbatte il turn over e diventa appetibile per i lavoratori più contesi sul mercato. C’è ancora tanta strada da fare, ma la diffusione di buone pratiche è un mezzo per cambiare, dall’interno, il mondo del lavoro italiano».
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