Welfare

Hanno buttato la crisi sulle spalle dei giovani

editoriale

di Giuseppe Frangi

Qualcuno si è chiesto quanto peserà sull’Europa di domani la stretta sociale di oggi? Lo abbiamo scritto qualche numero fa: il welfare degli Stati ormai viene “regolato” dalle centrali della finanza. Se l’euro traballa, grazie anche all’offensiva della speculazione, l’unica soluzione per tranquillizzare i mercati e restituire stabilità al sistema sembra solo quella di contrarre le spese sociali. Ovviamente i tagli non vengono fatti in base a un’idea di welfare, ma in genere si va a colpire là dove si trova meno resistenza.
Così si consumano delle inaccettabili ingiustizie, come quella che è stata sventata (speriamo) in Italia grazie alla tenacia delle associazioni dei disabili, supportate dal solo sostegno informativo di Vita e pochi altri: per recuperare 30 milioni di euro, un briciola nella montagna del debito pubblico, si gettavano nella disperazione famiglie, ad esempio quelle con figli down, già in gravissima difficoltà.
Ma oltre a disseminare di ferite spesso del tutto inutili il corpo sociale, questa revisione indiscriminata del welfare ha una conseguenza ancora più grave, anche se oggi difficilmente misurabile: pregiudica il futuro. Probabilmente l’innalzamento dell’età della pensione delle donne a 65 anni, imposta da Bruxelles senza possibilità di discussione, dà un minimo di respiro ai conti pubblici dei prossimi anni. Ma chi ha considerato la conseguenza indiretta di questa decisione? Per migliaia di giovani in attesa di entrare nel mondo del lavoro, l’appuntamento viene nuovamente rinviato. Avremo ad esempio delle classi scolastiche con delle insegnanti-nonne che impazziranno per le intemperanze degli allievi-nipoti sempre più incontenibili, mentre tanti/e laureati/e pieni/e di energia restano ancora fuori dalla porta o sono costretti/e a elemosinare pezzi di disperante precariato.
L’Europa che taglia, taglia soprattutto il futuro dei suoi giovani. Prendiamo un dato emblematico per quanto riguarda l’Italia (ma l’Italia in questo non è un’eccezione): l’investimento per la protezione sociale nel 2009 ha toccato il 19% del Pil, quella per l’istruzione è scesa al 4,5%. Nel 1990 queste percentuali erano, rispettivamente del 16,1 e del 5,5. È vero che il calo demografico incide, ma dovrebbe essere compensato dalla necessità di una maggiore formazione che viene richiesta da un mercato del lavoro sempre più esigente ed evoluto. Invece succede che se i giovani di oggi non saranno in grado, quando entreranno nel mondo del lavoro, di produrre più reddito (la relazione tra livello di istruzione e capacità di reddito non ha bisogno di dimostrazioni), sarà necessario investire una quota ancora maggiore di spesa pubblica nella protezione sociale di coloro che oggi sono in età lavorativa.
Se poi si allarga lo sguardo e si pensa a quanto sia difficile costruirsi un futuro senza avere un lavoro; a come sia complicato progettare una vita di coppia quando il mercato delle case è tutto nella logica del profitto privato senza che lo Stato abbia briciole di bilancio per proporre un’edilizia convenzionata e calmierata, si capirà come l’Europa, con tutti i suoi adulti dalle pance piene, abbia vigliaccamente scelto di far pagare la crisi ai suoi giovani.


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