Economia

La Coppa del Mondo? Non cambierà l’AfricaMa com’è irresponsabile la mascotte dei Mondiali

L'intervento di un ricercatore sociale ugandese

di Redazione

Ma il caso del leopardino non è isolato. Perché dietro la mobilitazione sociale dei marchi più noti al mondo si celano clamorose violazioni di diritti. E spesso ci sono di mezzo industrie asiatiche. Dalla Cina al Pakistan Quando si tratta di contare palle, la Csr delle imprese entra in campo con le sue stelle. Se poi si tratta del rettangolo di gioco più prestigioso in assoluto, quello della Coppa del mondo, si fanno pure gli straordinari. Prendete la Fifa, che schiera un programma social per aiutare l’Africa. Tutta roba seria: training speciali destinati a giornalisti africani, campetti di calcio per i bimbi poveri e affamati africani. Chapeau.
A ruota arrivano gli sponsor che non si danno pace per aiutare il pianeta ferito. Nike batte tutti vestendo di tutto punto ben nove nazionali con magliette griffate dal riciclo di bottiglie di plastica. Stupendo. Sony manda in goal l’Africa regalando schermi giganti ai poveri tra i poveri per assistere ai match del Mondiale. Coca Cola e McDonald’s contribuiscono con moneta sonante ai progetti contro la malaria, l’Hiv etc. Per una vetrina del genere non si lesinano le risorse.
Tuttavia, l’impatto sociale delle iniziative non va giù ai sudafricani. Perché attorno agli avveniristici stadi, più del 25% della popolazione è senza lavoro. Molto meglio del 2005 quando il tasso di disoccupazione era superiore al 36%, ma che comunque resta una delle percentuali più alte del mondo, con un’industria tessile che è uscita a pezzi dalla crisi economica.
E la Fifa che fa? Concede le licenze del merchandising milionario (si spera) alla multinazionale Global Brands Group che appalta i lavori, manco a dirlo, in Cina, la star del nuovo mondo.
Dai sindacati sudafricani si sono subito levate proteste accese. Qualcuno ha fatto la voce grossa lanciando perfino l’idea (non raccolta) di boicottare la manifestazione.
A peggiore le cose però ci ha pensato il viaggio di Zakumi, il «simpatico leopardino con i capelli verdi», mascotte ufficiale della manifestazione, che in questi giorni sta facendo il giro del mondo per tirare la volata all’evento. Per fare due milioni e 300mila pupazzi Zakumi, gli operai della Shanghai Fashion Products lavorano su turni di 13 ore per due dollari e mezzo al giorno. Solita storia. Solite fabbriche della Cina che corre a doppia cifra e produce a basso costo, anche a discapito dei diritti umani dei lavoratori.
E il solito giornalista britannico, della squadra di News of the world, che va a controllare e a rompere le scatole. Global Brands Group ingoia il rospo. E corre ai ripari ordinando alla fabbrica cinese di interrompere la produzione, almeno fino a quando non migliorerà gli standard di lavoro. Per poi, ça va sans dire, tornare ai blocchi e ripartire con la produzione. La partita, da qualunque anello la si guardi, è sempre in Oriente. I 70 milioni di nuovi palloni presi a calci ogni anno, si producono nell’area di Sialkot, in Pakistan. Piccole ditte, piccole mani che cuciono il cuoio con ago e filo.
Ma anche qui la Cina gioca duro e incomincia a prendere commesse su commesse nel mercato dei palloni. I licenziatari europei e americani non battono ciglio.
A mandare davvero su tutte le furie la Fifa ci sono riusciti solo i sudcoreani di Ginseng Corp. I ragazzi di Seoul, socialmente irresponsabili, hanno avviato la produzione di 10 milioni di pacchetti (special edition) di sigarette World Cup. Una boccata di catrame che ha mandato adirato Blatter & Co. Perché in Sudafrica si giocheranno Mondiali puliti. A costo di vedere l’industria africana in fumo.


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