Non profit

Acqua, vediamoci chiaro

Pubblica o privata? Qual è la posta in gioco

di Michele Boato

Il referendum è la grande occasione per affrontare un tema che impatterà sulla vita di tutti. Ma per prendere posizione occorre evitare i luoghi comuni.
E partire dai numeri. Che dicono che il sistema idrico è afflitto da un 30%
di perdite. Ma anche che
le multinazionali spesso hanno aumentato solo
i prezzi Come gestire al meglio la risorsa acqua potabile, in un mondo in cui quasi un terzo della popolazione non vi ha accesso, con drammatiche conseguenze? Per affrontare un tema così importante e complesso, dobbiamo prima prendere le distanze da slogan superficiali e politicisti quali: «Il mercato ci libera dai parassiti e dalle inefficienze, viva il privato!», o il suo simmetrico: «I privati speculano su tutto e ci rapinano, il pubblico ci salva!». Non possiamo né buttare a mare i benefici di una sana e onesta concorrenza e neppure quelli di una forte presenza regolatrice della “mano pubblica”, specie nel campo di servizi essenziali come sanità, scuola, mobilità, rifiuti, energia, acqua.

Pura ideologia
I quesiti referendari per i quali sta raccogliendo le firme un amplissimo numero di associazioni non si oppongono all’efficienza nella gestione delle reti idriche (ce n’è un grandissimo bisogno, basta pensare al 30% di perdite), ma alle norme che obbligano i Comuni ad affidare il servizio a società quotate in Borsa con almeno il 60% di capitale privato, a partire dal 2013, che diventa 70% dal 2015. Inoltre vengono contestate l’imposizione della forma di società per azioni e il principio di «remunerazione del capitale investito» (cioè profitto), invece dell’obbligo di reinvestimento in miglioramenti del servizio. Sono norme che prescindono da una puntuale verifica di efficienza dell’attuale gestione perché rispondono ad un imperativo tutto ideologico: «Il privato ci salva».

Tra Arezzo e Puglia
Che non sia così scontata l’azione salvifica del privato, al di fuori di regole e controlli tuttora quasi inesistenti, lo dimostrano varie esperienze di privatizzazione avventata, sperimentate in questi anni in Umbria (a Terni le tariffe sono quadruplicate a fronte di nessun miglioramento del servizio), in Lazio (a Latina dal 2005 al 2009 le tariffe della nuova società AcquaLatina sono aumentate del 500% per le famiglie e del 390% per gli artigiani), in Toscana: ad Arezzo, dopo l’ubriacatura d’acqua francese, ora si vuole tornare ad una gestione molto più controllata dalla mano pubblica.
Comunque restano gli enormi problemi nella gestione pubblica delle acque: dobbiamo domandarci come mai il padre del Forum dei movimenti per l’acqua, Riccardo Petrella, si sia arreso e abbia dato le dimissioni dalla presidenza dell’Acquedotto Pugliese (il più grande e tra i meno efficienti d’Italia), nominato nel 2005 dal neo presidente delle Regione Puglia, Vendola.
E non dobbiamo dimenticare gli enormi sprechi d’acqua nei settori chimici, energetici e, soprattutto, nel settore agricolo, che opera oltre il 50% dei prelievi con una perdita del 40% in evaporazione, per inefficienza dei sistemi irrigui.
Inoltre, sono pochissime le Province con Catasti agricoli e Registri idrici industriali aggiornati. Sono ancora meno i Comuni che tengono sotto controllo le centinaia di migliaia di pozzi privati che possono far bere acqua non potabile o essere fonte, essi stessi, di inquinamenti. Per non parlare della quasi inesistenza in Italia di regolamenti comunali o leggi regionali che obblighino i nuovi edifici e le ristrutturazioni edilizie a dotarsi del recupero delle acque piovane per usi idrici non potabili (servizi igienici, pulizie, giardinaggio ecc.), di sciacquoni a due velocità, di rubinetti frangi-flusso, e di quanto la bioarchitettura proponga per un uso più attento di nostra sorella acqua.

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