Non profit

Superate le 550mila firme

Il risultato raggiunto in appena un mese di raccolta sui tre quesiti referendari

di Silvano Rubino

Il mercato in Italia oggi vale 4,2 miliardi. Che presto potrebbero salire a 12 Obiettivo raggiunto, in un solo mese, invece che nei tre previsti dalla legge: la raccolta delle firme per i tre quesiti referendari sull’acqua pubblica è arrivata ben oltre quota 550mila. Ennesima conferma della presa psicologica (e politica) di un tema che ha suscitato una mobilitazione dal basso come poche altre volte se ne sono viste. Segno, anche, probabilmente, che chi si è messo in coda ai banchetti ha compreso l’importanza della partita, magari anche senza conoscere nel dettaglio le complicate questioni giuridiche ed economiche messe in campo dai quesiti.
E in effetti la posta in gioco è enorme. L’acqua potabile italiana, oggi, vale 5,5 miliardi di metri cubi consumati (su 8 erogati, con un indice di dispersione pari al 30%) e 4,2 miliardi di euro fatturati. Una cifra che, con le pesanti iniezioni di privato a cui si andrà incontro con le nuove norme, è destinata inevitabilmente a crescere. Perché le tariffe italiane, oggi, sono tra le più basse nel mondo. E perché ovunque siano arrivati i privati gli aumenti ci sono stati. Ipotizzando che le tariffe arrivino ovunque al livello di quelle praticate da Veolia e Suez (le multinazionali francesi in prima linea sul fronte della gestione dell’acqua), si può calcolare che in futuro il business dell’oro blu italiano sfiorerà quota 12 miliardi.
Non serve un economista per capire che è un mercato che può fare gola. Tant’è vero che la privatizzazione della gestione, di fatto, è un fenomeno già ampiamente in corso nella nostra penisola, a macchia di leopardo, a cui il decreto Ronchi (oggetto del primo quesito referendario) non farà che dare un’accelerazione spinta. Tutto è partito con la legge Galli (36/1994), che ha introdotto il principio secondo cui la tariffa deve comprendere tutti i costi di gestione, di ordinaria e straordinaria manutenzione, che fino a quel momento ricadevano sulla fiscalità generale (cioè sulle tasse pagate dai cittadini, extratariffe). Le società di gestione, progressivamente, si sono aperte al privato: secondo i dati di Civicum (fermi però al 2007) in 67 Ato (Ambito territoriale ottimale), corrispondenti al 79% della popolazione, sono attivi 106 gestori: 5 privati, 31 società a capitale misto, 64 società pubbliche e 6 casi non inquadrabili.
Numeri che, secondo i promotori del referendum, sono destinati a invertirsi. Sempre meno società pubbliche (che dovranno cedere obbligatoriamente una parte del capitale o partecipare alle gare per vedersi aggiudicato il servizio), sempre più privati. Eppure, in questi anni, gli investimenti sulla rete idrica non sono aumentati, anzi. Così pure l’indice di dispersione, sempre alto. E a fronte di privatizzazioni investite da cicloni di polemiche (vedi Latina) ci sono casi di gestione a capitale interamente pubblico che funzionano, tenendo le tariffe basse, come a Milano.

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