Cultura

la conta dei vulnerabili

L'intervento di Marco Revelli per il nuovo numero di «Communitas»

di Marco Revelli

Sono 18 milioni, non si possono definire poveri ma della povertà portano tutte le stigmate. Un pezzo enorme della classe media, che resta attaccata al suo status anche con le unghie, ma che vive sempre più nell’incertezza.
Ritratto di un’Italia di cui nessuno parla
La povertà interessa poco. Spiace dirlo, ma è così. Interessa poco al sistema dei media, perché essendo cosa grave, e preoccupante, non lascia spazio al gossip. E interessa poco anche alla politica. A quella di governo come a quella d’opposizione. Ne sappiamo qualcosa noi della Cies – la Commissione d’indagine sull’esclusione sociale -, che in questi tre anni di lavoro abbiamo dovuto imparare quanto sia in realtà difficile ottemperare al dettato dell’art. 27 della legge 8 settembre 2000, n. 328 – la norma istitutiva della Commissione nella sua attuale forma -, là dove, oltre al compito di «effettuare (?) le ricerche e le rilevazioni occorrenti per indagini sulla povertà e sull’emarginazione in Italia», prescriverebbe anche quello di «promuoverne la conoscenza nelle istituzioni e nell’opinione pubblica» e di fornire al decisore pubblico – governo e soprattutto parlamento – le informazioni, le valutazioni e le proposte utili per meglio contrastare il fenomeno.
Sarebbe invece assai utile, e salutare, occuparsene, perché la “fotografia” della povertà ci dice molto sul profilo – non solo sociale, ma anche politico e, perché no?, morale – del nostro Paese. Ci permette, senza dubbio, di capire meglio questa Italia, per molti aspetti sempre più “opaca” nei suoi movimenti profondi, e sempre meno decifrabile con le tradizionali categorie dell’analisi politica. Basta dare un’occhiata al Rapporto 2008-2009 per rendersene conto.

Linea di galleggiamento
Pur nell’aridità delle cifre esso rivela alcuni aspetti solitamente trascurati, e tuttavia rilevanti non solo per misurare l’estensione dei bisogni (di per sé estremamente preoccupante) ma anche per comprendere la natura e il “segno” dei comportamenti individuali e collettivi: quella che potremmo considerare la “deriva antropologica” che sta, neppur tanto lentamente, modificando la percezione di sé e degli altri, nella sfera pubblica e in quella privata, degli italiani. Ci dice, ad esempio, che la base su cui poggia l’intera piramide sociale – lo zoccolo duro più esteso, che dovrebbe sorreggere tutto il resto – è fragile. Segnato da forme molteplici di “deprivazione”. Viviamo con la testa nel mondo fantasmagorico del consumo opulento (abbiamo aspettative da consumatori ricchi), ma poggiamo i piedi, e tutto il corpo, sulla linea di galleggiamento.
I numeri – e soprattutto i confronti, la comparazione con il resto d’Europa – stanno lì a ricordarcelo. Non si tratta solo di quegli 8 milioni di “poveri in senso relativo”. Né di quei quasi 3 milioni di “assolutamente poveri” che l’Istat ha censito. Si tratta anche – e ai fini di questo discorso soprattutto – di quei quasi 19 milioni di persone (18.896.000, per la precisione) che, secondo l’analisi cluster dell’Istat, non possono essere definite “tecnicamente” come povere (per il livello del reddito o della spesa mensile, perché possiedono la casa in cui abitano, ecc.), ma che della povertà o della minaccia di povertà portano tutte le stigmate: i quasi 4 milioni di individui che «arrivano con grande difficoltà a fine mese» e che «non potrebbero affrontare una spesa imprevista di 700 euro» senza “finire sotto”. I 3,5 milioni «in difficoltà per le spese della vita quotidiana» (quelli che «nei 12 mesi precedenti all’intervista hanno avuto almeno una volta scarsità di denaro» per acquistare cibo, per le spese mediche o le tasse, o per i vestiti).
E ancora, i quasi 6 milioni di persone censite come «vulnerabili», i più distanti dalle fasce basse degli assolutamente, e anche dei relativamente, poveri, perché appartenenti al secondo quintile di reddito, spesso proprietari dell’appartamento in cui vivono, con la disponibilità di auto, televisore, elettrodomestici, ecc?, e tuttavia dichiaratamente in difficoltà.
Vulnerabili allora. Probabilmente in ampia parte vulnerati ora, dopo che la crisi ha incominciato a mordere anche sulle fasce fino ad ora considerate relativamente “forti” del mercato del lavoro: sui titolari di un posto fisso, sui lavoratori autonomi, sulle stesse mansioni impiegatizie e in qualche caso persino manageriali, spesso coperte dagli ammortizzatori sociali ma gravate da un “peso” normalmente accettabile (uno o due figli minorenni o in cerca di lavoro, un famigliare non autosufficiente, la necessità di cure specialistiche) e divenuto insostenibile in caso di cassa integrazione, o anche della impossibilità di prestare lavoro straordinario.

Difendersi con le unghie
È un’Italia in condizione di strutturale precarietà. Che è, e soprattutto si percepisce, “in bilico”. Sono figure sociali che non hanno interiorizzato la “cultura della povertà” di chi da tempo ha metabolizzato il suo appartenere (talvolta generazionalmente) al “mondo dei vinti”; sono, per stile di vita, rete relazionale, rapporti professionali, modelli famigliari, a tutti gli effetti parte di una middle class che si considerava, fino a pochi anni or sono, “garantita” contro il rischio del declassamento e a maggior ragione dell’impoverimento. Anzi, che strutturava la propria autostima sulla distanza dagli “ultimi”, e che ora resiste alla deriva verso il basso. Tende a difendere con le unghie e con i denti l’immagine di status che la caratterizza (e da cui dipendono le relazioni primarie che ne strutturano la vita quotidiana), anche a costo dell’indebitamento futuro.
Un ceto medio che ignora, ma prima ancora rifiuta pregiudizialmente, gli strumenti istituzionali dell’assistenza: non può – ma neppure vorrebbe né saprebbe – ricorrere ai sussidi ad hoc. E finisce per consumare in privato il proprio malessere direttamente proporzionale all’immagine di benessere che si sforza di continuare a comunicare, ricodificandolo nella forma dello “spaesamento”.


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