È giusto mettersi in prima persona a sostenere un diritto di tutti? Mi sono fatto questa domanda dopo aver constatato che la mia piccola battaglia per verificare l’accessibilità dello stadio Santiago Bernabeu di Madrid, sede della finale di Champions League fra Bayern e Inter, il 22 maggio prossimo, viene ripresa con una certa enfasi anche da alcuni media, perché la questione è stata sollevata in termini anche personali da me, giornalista a rotelle, e sicuramente interista.
Non sono contento della personalizzazione, perché io volevo sollevare in modo trasparente un problema di discriminazione nell’interesse di tutti coloro che condividono la medesima situazione. Nell’era della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, approvata da quasi tutti i Paesi europei, Spagna e Italia in testa, scopro che l’art. 30, che stabilisce il diritto a fruire dei luoghi di spettacolo e di sport come tutti i cittadini, viene totalmente ignorato dall’Uefa, che non si pone neppure il problema (al momento nessuna comunicazione al riguardo). Ma scopro anche che il Santiago Bernabeu è uno stadio poco accessibile ai tifosi disabili: poco più di 70 posti per le sedie a rotelle, in una posizione non precisata nel sito del Real Madrid, ma che dai commenti trovati in rete si capisce che si tratta di una collocazione scomoda, se non pericolosa. Non so come stiano le cose, ma di sicuro mi viene al momento negato il diritto di decidere un viaggio emozionante.
Non posso partire al buio, e dunque probabilmente resterò a Milano. Chi se ne importa? Certo, rispetto ai tanti diritti negati (dei quali peraltro parliamo costantemente) è piccola cosa. Nella storia personale di tifoso, e di persona disabile, una piccola grande sconfitta. Ma non è ancora detto. Di bello, al momento, il passaparola e la solidarietà della rete: un fenomeno importante, dal quale non si può prescindere, nel nostro impegno civile.
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