Non profit

quel bicchiere d’acqua scomparso dagli ospedali

Sostituito da una flebo: ma quanto si perde in relazioni?

di Redazione

Riflessione sul valore simbolico e professionale di un gesto dimenticato Le opere di misericordia corporale sono diventate un reperto archeologico della nostra cultura, eppure la loro pratica si intersecò a lungo con la prassi medica. «Dar da bere agli assetati» possiede l’imperatività di un precetto medico, non solo morale; ci indica quanto il precetto morale abbia di terapeutico. L’adeguata idratazione del paziente è una condizione sine qua non per il successo della cura. È un gesto semplice, elementare, un archetipo culturale. Avvicinare alla bocca del paziente un bicchiere ricolmo d’acqua è gesto capace di scacciare i cattivi umori della malattia, l’ombra livida e dolente che si stende sul letto dell’ammalato.
Dal sollievo al moribondo e al malato si è passati alla intensiva valorizzazione commerciale dell’acqua, che dà forma ai corpi e nutre la bellezza. Nell’ideologia salutista l’acqua è centrale, ma rivolta a chi riesce a bere da sé.
Sono scomparsi gli assetati, la sete si è metaforizzata; si è assetati di giustizia, di sangue, di soldi, di vendetta. Quando lo si è dell’acqua, è solo per mantenersi in forma.
Ma l’acqua, quella vera, ora è scomparsa anche dalle corsie degli ospedali. Frequentandole ci si accorge che non c’è quasi più nessuno che la porge ai malati. Magari qualcuno lo dice ai parenti, ne informa l’ammalato. Ma il “dar da bere agli assetati”, e tutti i malati sono assetati, non è più uno dei doveri principali degli infermieri. La constatazione, seppure empirica, mi pare per certi versi incontrovertibile. Negli ospedali non si dà più da bere, per gli infermieri non è più un compito essenziale del loro mestiere. Nei corsi di laurea infermieristici si studiano molecole e apparati tecnico-scientifici e al bicchiere d’acqua si è sostituito il sondino naso-gastrico, la soluzione fisiologica. La necessità dell’idratazione rimane come prescrizione, ma non è realizzata attraverso quel gesto semplice e naturale che è il poggiare un bicchiere d’acqua sulle labbra dell’ammalato.
Da quando si è obbligati al drg che stabilisce i parametri entro i quali la degenza deve scorrere e risolversi, pena il dimezzamento progressivo dei contributi regionali, l’infermiere, la caposala e tutto il personale sono immersi in una frenesia inarrestabile, satura di carte e compilazioni che azzerano il tempo che essi dovrebbero dedicare alla conoscenza del paziente.
La prima vittima è il paziente, la sua condizione, l’incerto cammino tra la malattia e i segni di una nuova recuperata salute. Il malato che non può bere senza l’aiuto di qualcuno peggiora la sua condizione; quando la clinica se ne accorge, non si fa altro che attaccargli la flebo idratante, magari su un braccio già martoriato e con le vene ridotte a colabrodo. Ma così sta male anche la professione infermieristica in sé: quante informazioni in meno, quanti sintomi nascosti in più senza quel chinarsi sulla bocca del malato, sul suo respiro e quanta, tanta, speranza in meno in quell’assenza di incontro tra due sguardi, quello che soffre e quello che cura e in mezzo un solo bicchiere d’acqua. Assente.

Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?

Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it