Non profit

Nell’Africa nera vince solo il giallo

Spiega l'economista Stefaan Marysse: «Con un investimento di 9 miliardi di dollari in Congo, Pechino si assicurerà profitti per 90 miliardi. Esentasse»

di Joshua Massarenti

Quaranta milioni di dollari d’investimento per avviare i lavori di una sala d’opera ad Algeri (14 aprile); inaugurazione di un secondo ufficio di cooperazione tecnica ad Addis Abeba, in Etiopia (22 aprile); una visita ufficiale di quattro giorni in Liberia del ministro del Commercio, giunto a Monrovia alla guida di una delegazione di 45 persone (14 ufficiali, 23 uomini d’affari, cinque giornalisti e tre alti funzionari); e poi, una tavola rotonda a Dar es Salaam (Tanzania) con sei Paesi africani per cooperare nel settore della cartografia (23 aprile); infine, 700 milioni di dollari di prestiti al Congo per la costruzione di una diga nel nord del Paese (24 aprile). Ecco a che cosa assomigliano dieci giorni di assalto della Cina al continente africano. Un assaggio in tempo reale effettuato su “google news” e che ci spiega come l’offensiva cinese non sia il frutto dell’immaginazione. Ma per Stefaan Marysse, docente di Politica economica presso l’Università di Anversa e grande specialista dell’Africa dei Grandi Laghi, il fenomeno non è privo di rischi. Per gli africani, ovviamente. Prova ne è il “contratto del secolo” siglato nel 2007 tra Pechino e la Repubblica democratica del Congo. «L’accordo prevedeva nove miliardi di finanziamenti cinesi per costruire 3.500 chilometri di strade, 3.200 di ferrovie, 32 ospedali, 145 centri di soccorso, due università e 5mila case. In cambio, il governo congolese offriva il suo bene più prezioso: le risorse minerarie».
Vita: Oggi a che punto siamo?
Stefaan Marysse: I lavori sono iniziati un po’ ovunque, ma il vero problema rimane la sostanza di un’intesa che danneggerà i congolesi. Intanto, i soldi versati da Pechino attraverso la banca cinese Exim Bank sono prestiti, non investimenti. Per garantire il rimborso, è stata fondata una joint venture congo-cinese – la Sicomines, a maggioranza cinese – incaricata di estrarre rame, cobalto e oro, ed esportare queste materie prime in Cina. Domande: in un Paese dove tutto è da ricostruire, chi mette i soldi per avviare il processo di produzione dell’industria estrattiva? E come misurare la quantità di rame, cobalto e oro che il Congo dovrebbe consegnare per rimborsare 9 miliardi di dollari? Nel primo caso, tutto ricade sui congolesi, nel secondo non c’è risposta. Ma c’è chi dice che la Cina potrebbe tirare profitti colossali, dai 30 ai 90 miliardi di dollari.
Vita: In Congo nessuno ha mai reagito?
Marysse: Opposizione, media e società civile si sono mobilitati – spesso nella confusione – per denunciare un contratto firmato con poca trasparenza. Kinshasa e Pechino sono stati costretti a rivederlo nel 2008, abbassando il prestito a 6 miliardi di euro. Ma il problema di capire se il baratto migliorerà il benessere dei congolesi rimane.
Vita: Eppure in Africa la Cina parla di rapporti paritari…
Marysse: Lei prenda la mappa delle infrastrutture congolesi ai tempi del colonialismo e la compari con quella odierna delle infrastrutture cinesi in Congo. Non c’è differenza! Il che significa che al pari dei belgi durante l’epoca coloniale, i cinesi investono in questo Paese quasi soltanto per sfruttarne le materie prime. Con due differenze di sostanza: contrariamente al passato, dove la multinazionale belga Gecamines contribuiva al 60% del budget nazionale congolese, oggi la Sicomines è totalmente esonerata dal pagamento delle tasse! Eppure i suoi versamenti sarebbero vitali per lo Stato. La seconda differenza riguarda l’assenza di ingerenza politica dei cinesi. Morale della favola: Pechino applica in Congo e nel resto dell’Africa un progetto coloniale senza dominazione politica.

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