Famiglia

quelle comunità da cui non si esce mai

Una ricerca in Lazio svela i punti critici dell'accoglienza

di Benedetta Verrini

Il Garante per l’infanzia e l’adolescenza del Lazio ha presentato la prima indagine sui servizi di accoglienza per minori della regione. Una cartina di tornasole che rileva le criticità del sistema e la nuova fisionomia dell’utenza: molti stranieri, molti ragazzi sopra i 13 anni, grande “mobilità” tra una comunità e l’altra, molti affidi falliti.
I bambini e i ragazzi fuori famiglia posti in strutture di accoglienza nel Lazio sono circa 1.300, poco meno del 10% rispetto al dato complessivo nazionale. La loro condizione è altamente rappresentativa, sia per i numeri sia per l’eterogeneità delle situazioni. L’Ufficio del Garante regionale ha costruito un importante strumento di monitoraggio, in collaborazione con gli uffici della Procura del Tribunale per i minorenni della capitale, che si propone di mettere in luce sia la situazione dei ragazzi sia le strategie da adottare per la loro accoglienza.
«Prima di tutto», commenta Stefano Vicini, ex giudice onorario e coordinatore della ricerca, «il numero degli allontanamenti è sensibilmente diminuito negli anni, segno che il lavoro di prevenzione dei servizi ha dato i suoi frutti». Ci sono però alcune criticità, che complicano i progetti individuali e i tempi di rientro in famiglia – o di conquista dell’autonomia – dei minori. La prima è la tipologia dell’utenza: 295 ragazzi su 1.258, il 25% del totale, sono stranieri non accompagnati (prevalentemente afgani, egiziani, bengalesi, romeni, marocchini). Il 46,4% dei minori in comunità, poi, è piuttosto grande, tra i 13 e i 18 anni.
I tempi di permanenza in struttura sono una nota dolente, che sconfessa i desiderata della legge 149/2001: quasi 300 minori si trovano in comunità da più di due anni, 121 da più di cinque anni e 5 minori da più di dieci anni. «Non può che preoccupare questa lunga durata delle permanenze», commenta Vicini. «Si pone l’interrogativo della costruzione di un vero intervento di rete che veda coinvolti servizi sociali, servizi di cura e organi di protezione del minore. La risposta al disagio, infatti, deve adeguarsi alle nuove problematiche, mentre le comunità sono attrezzate per forme di disagio superate: oggi abbiamo adolescenti borderline, patologie psichiche, famiglie multiproblematiche. È a questa nuova sfera di emarginazione e povertà socio-relazionale che dobbiamo guardare». Vicini si confessa stupito del numero di affidi falliti: quasi il 5% dei minori presenti in struttura arriva da un affidamento.
E poi, c’è lo sguardo sul futuro: appena il 3,5% dei bambini presenti in comunità potrebbe essere adottato. Per oltre il 32% dei minori, invece, non è possibile ipotizzare tempi per un rientro a casa o per un percorso di autonomia. Un limbo. «Molte comunità si stanno riorganizzando per dare soluzioni concrete, offrire un ponte di accompagnamento nell’età adulta, occasioni di formazione e di lavoro», spiega Vicini. «Non possiamo rispondere solo con l’accoglienza, è necessario trovare soluzioni, e prevenire quel “secondo abbandono” che è il passaggio all’età adulta».


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