Welfare

cordoni ombelicali, meno male che ci sono le straniere

Il caso scuola del Santa Maria degli Angeli di Pordenone

di Sara De Carli

Nel mondo sono pochissime le unità non caucasiche bancate: difficilissimo fare un trapianto, quando serve. Ma in Friuli è partito un progetto d’avanguardia, per sensibilizzare le donne extracomunitarie. Che adesso superano il 33% delle donatrici
Da zero a 70 in meno di un anno: tante sono le mamme straniere che, all’ospedale Santa Maria degli Angeli di Pordenone, dal maggio 2009 ad oggi hanno scelto di donare il cordone ombelicale del proprio bambino. In un punto nascita che vede 1.200 parti l’anno e in cui ben il 40% delle mamme dona il cordone, le straniere sono arrivate ad essere, in questi primi mesi del 2010, più di un terzo delle donatrici.
Tutto è cominciato nel febbraio di due anni fa, quando all’ospedale di Pordenone arrivò una piccola paziente cinese di 7 anni, malata di aplasia midollare. Serviva un trapianto con le staminali cordonali. Il cordone, ovviamente, doveva essere di un bambino simile a lei. Cinese. Da Pordenone parte la richiesta, che gira in rete nelle banche di tutto il mondo: un cordone cinese non c’è. «È servito più di un anno per trovare una unità compatibile», spiega Lucia De Zen, oncologa pediatrica (nella foto), «perché le banche cinesi non aderiscono alla rete internazionale». La bimba fece il trapianto, oggi sta bene, ma quella vicenda ha lasciato il segno.
Far scoprire anche alle mamme non caucasiche quanto è importante donare le cellule staminali del cordone ombelicale è il fronte più urgente per chi lavora in questo campo: perché se di cordoni bancati nel mondo ce ne sono 450mila, pochissimi di questi sono di etnia non caucasica. Numeri che rendono difficilissimo il matching se il malato ha, invece, quelle caratteristiche genetiche. Così a Pordenone, dove il 16% della popolazione è immigrata e i nuovi nati vengono da 38 Paesi diversi – il 25% del totale sono proprio di origine non caucasica, con Cina, Bangladesh, Pakistan, Africa e Sud America in testa – si sono posti il problema.
A maggio 2009 è partito il progetto, con taglio sociale più che sanitario. «Abbiamo coinvolto i leader delle varie comunità locali», spiega la De Zen, «per verificare innanzitutto che non ci fossero ostacoli culturali o religiosi alla proposta. Poi abbiamo realizzato un dvd in sei lingue che spiega in modo semplice perché donare il cordone: i doppiatori sono persone autorevoli nelle diverse comunità, l’imam, una mia collega africana, la rappresentante della comunità bengalese. Una scelta che si è rivelata vincente». La prima mamma straniera donatrice è stata una marocchina, Laila. Le mamme hanno risposto benissimo, solo «facciamo un po’ più di fatica con le cinesi, forse anche perché lì è meno chiaro un referente per la loro comunità», riflette la De Zen. Remore particolari alla donazione non ne hanno, «anzi direi che è più difficile con le italiane, che si interrogano invece sull’alternativa della conservazione per uso autologo. In tanti anni invece non ho mai visto una donna straniera arrivare in sala parto con il kit per l’autologa».
I numeri assoluti di cordoni non caucasici messi in salvo nelle banche grazie al progetto di Pordenone, certo, sono ancora piccoli. Per due motivi, spiega la De Zen: «Uno di ordine generale, per cui per gli stretti parametri di raccolta di fatto raccogliamo circa il 10% dei cordoni rispetto ai consensi dati alla donazione. D’altronde il fulcro non è la mamma che dona, ma il paziente che riceve». La seconda ha a che fare nello specifico con le dinamiche migratorie: «Molte donne arrivano ancora con i ricongiungimenti familiari, e per motivi sanitari sono escluse dalla donazione per lunghi periodi. Tutto cambierà tra dieci anni, quando in sala parto arriveranno le ragazze della 2G».


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