Politica

Per fare futuro faccia presente

Rileggendo l'ultimo libro del presidente della Camera

di Redazione

È la parola chiave del nuovo corso finiano. Ma c’è un equivoco da chiarire Futuro è un termine socialmente abusato e l’editoria, anche in questo caso, non sa o non vuole fare eccezione. Un ricorso così massiccio a una parola, a discapito di chissà quante altre, richiederebbe se non cautela quanto meno più consapevolezza semantica. In tempi di discussioni e scelte condivise, l’invadenza del “futuro” sarebbe stato una spia sufficiente per avviare il dibattito pubblico, chiedendosene quanto meno la ragione. Oggi i dibattiti pubblici sono anch’essi tutti «rivolti al futuro» e nella società con mezzi relativamente abbondanti e fini sempre più incerti, la retorica del domani ha sommerso l’urgenza dell’oggi.
Al di là di alleanze e beghe di partito, ad esempio, non sono ancora chiari né la coloritura né l’accezione impressi al termine “futuro” dall’attuale presidente della Camera. Gianfranco Fini ha più volte espresso l’ambizione di parlare a una «generazione F» (“futuro”, appunto). Chiacchiera politica a medio termine o progetto di maggiore respiro? In almeno due contesti simbolicamente rilevanti, la parola Gianfranco Fini e il suo entourage di futurologi ex futuristi l’hanno meditata: dando per prima cosa il nome alla sua fondazione-laboratorio, “Fare Futuro”, e titolando infine il suo libro-manifesto Il futuro della libertà. L’ultimo capitolo del libro di Fini, carico di rimandi a Cristopher Lasch e Hannah Arendt, ha un titolo altrettanto significativo, ingenuamente e maldestramente calcato sul titolo di un noto romanzo di Aldous Huxley: Un mondo nuovo c’è già. Ed è proprio in questo richiamo all’oggi che, in qualche modo, non è possibile eludere il confronto con un altro libro “futurologico” uscito nel giugno 2009, tre mesi prima dunque rispetto a quello finiano, sempre dall’editore Rizzoli. Si tratta de Il futuro è già qui, un lavoro denso, intenso e a tratti inquietante del manager Giancarlo Elia Valori. Messi a confronto i due libri è come se fossero leggibili a incastro. Tentare una lettura in “combinato disposto” è forse meno azzardato di quanto possa sembrare a prima vista. È come se uno (Fini) operasse su un versante divulgativo e banalizzante al punto da suscitare dibattito tra gli opinion makers, mentre l’altro (Valori), pur esplicitando a chiare lettere un punto di vista di realismo estremo, offrisse ai decision makers lo strumento operativo necessario per rendere più concreti i tratti del «fare-futuro». Ad esempio converrebbe leggere con attenzione le pagine che Valori dedica alla questione demografica e ai flussi migratori, prima di pensare a un “Fini di sinistra”.
Il problema, osserva Valori, è quello di far passare in un tempo alquanto prossimo scelte asimmetriche e socialmente non condivise, in particolare in tema di pensioni e welfare, tenendo conto dell’esaurirsi del classico meccanismo di rappresentanza. Nei prossimi anni, per porre rimedio alla diminuzione di redditi e lavoro retribuito «la tendenza globale sarà quella di una pressione tesa ad aumentare le quote di immigrati in età lavorativa, alla quale si coniugherà inevitabilmente una reazione identitaria di massa per tutelare i pochi lavori disponibili». Alla localizzazione del conflitto corrisponderà una sempre maggiore globalizzazione delle decisioni. Se questo è il progetto di Fini, c’è poco da stare allegri. Se non è questo, l’importante è che all’annuncio del suo “fare-futuro” corrisponda un ben visibile fare-presente. Lontanto dalle beghe politiche dalle quali la “generazione F” sembra tenersi a debita distanza.


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