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Quando ci dicevano: «È solo una ragazzata»

La solitudine delle famiglie, parla la sorella di Emanuela Orlandi

di Redazione

«Nei primi giorni ci siamo dovuti improvvisare detective. E oggi
è solo grazie a “Chi l’ha visto?” che le indagini vanno avanti»«Ciò che ha ferito maggiormente la nostra famiglia è stato il fatto di non essere stati creduti inizialmente. Già nei primi giorni, del resto, c’erano le telefonate dei rapitori o dei presunti rapitori. Le forze di polizia non hanno voluto accettare subito la denuncia perché dicevano che magari poteva essere una ragazzata. Nei giorni immediatamente successivi, infatti, ci siamo occupati autonomamente delle indagini. Fa male sapere che ci sia chi, in questi casi, possa dubitare che una famiglia abbia una vita normale o che la persona scomparsa andava d’accordo con la famiglia». Natalina Orlandi è la sorella maggiore di Emanuela, la quindicenne romana scomparsa nel nulla il tardo pomeriggio del 22 giugno 1983 dopo una lezione di musica. A distanza di anni ha ancora un cruccio: il tempo perso nelle indagini iniziali. Ormai non crede più all’ipotesi che sua sorella sia ancora in vita. «Vogliamo sapere solo la verità», dice. Quella verità che anche i media inseguono da 27 anni. Il caso di Emanuela Orlandi, complice la cittadinanza vaticana della ragazza e il coinvolgimento nelle ipotesi sulla sua sparizione di numerose figure legate alla storia degli anni del papato di Giovanni Paolo II, dall’attentatore Ali Agca al presidente dello Ior, la banca vaticana, monsignor Paul Marcinkus, dal banchiere Roberto Calvi all’ex presidente della Cei cardinale Ugo Poletti, non è finito mai nel cono d’ombra dei media. Si deve, anzi, proprio alla trasmissione Chi l’ha visto? se, in seguito a una telefonata anonima ricevuta nel 2005, è stata aperta la pista, attualmente seguita dalla Procura di Roma, della banda della Magliana.
Vita: Signora Orlandi, numerose famiglie di persone scomparse hanno pagato non solo con la perdita dei familiari ma anche con l’abbandono da parte delle istituzioni. È successo anche a voi?
Natalina Orlandi: No, perché il clamore del caso ha fatto sì che l’attenzione non calasse mai.
Vita: Chi vive l’esperienza della scomparsa di un parente, se credente, è portato a cercare conforto nella Chiesa. Nel vostro caso le ombre si sono allungate proprio sul Vaticano e su alcuni dei suoi uomini. È stato difficile tenere insieme le due cose?
Orlandi: Bisogna distinguere fra gli uomini di chiesa e la Chiesa. Gli uomini, si sa, hanno le loro mancanze. Mia madre, che è una donna con una fede immensa, è riuscita a sopravvivere in questi anni atroci proprio grazie alla fede. Il suo sostegno psicologico sono state le suore che erano di fronte a casa e che le sono state vicine sin dal primo giorno. Per fortuna la nostra famiglia è numerosa e unita. Dal Vaticano, tuttavia, ci saremmo attesi che fosse stato più attivo nelle fasi della ricerca. Non intendo accusare nessuno ma, essendo Emanuela cittadina vaticana, avremmo voluto che fossero stati loro anziché noi a sollecitare le autorità italiane.
Vita: Perché il caso di una persona scomparsa non finisca in archivio è necessario tenere sempre desta l’attenzione. L’informazione è una leva importante?
Orlandi: Se lo Stato italiano, nella vicenda di Emanuela, non ha smesso di indagare lo dobbiamo anche a Chi l’ha visto?. È l’unica trasmissione che dà voce e spazio alle famiglie. Ha preso il posto, in un certo senso, delle istituzioni. Se parla con le famiglie degli scomparsi vedrà che talvolta si arrabbiano perché il programma tv magari non ha mandato in onda più volte la foto del parente o non ha cercato bene. È come se la tv avesse sostituito la polizia, ma non dev’essere così.
Vita: Lei è presidente della sezione laziale dell’associazione delle famiglie di persone scomparse, Penelope Italia. La via di uscita dal dolore è stata anche la solidarietà nei confronti di chi sta vivendo o ha vissuto la sua stessa esperienza?
Orlandi: Non è stato facile. Uno non si sente mai preparato e pronto perché ogni scomparsa è una storia a sé. Non ho difficoltà ad ammettere che dopo un paio di giorni in cui mi occupo di un caso devo fare una pausa perché psicologicamente non ce la faccio…

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