Famiglia

L’handicap ha fatto spot

Negli Stati Uniti e in Inghilterra i portatori di handicap diventano protagonisti della pubblicità. Fanno vendere raccontando come hanno superato i deficit con la tecnologia

di Paolo Mastrolilli

A prima vista sembra una pubblicità normale; una roba di computer, con un ragazzo che sogna un cane. Se però la semplicità dell’immagine stimola la vostra curiosità, fino al punto di leggere la prima didascalia, trovate queste parole: «Ecco Christian. Lui può vedere, udire, provare sensazioni, toccare, ma non può parlare. È nato con tendenze autistiche, che lo tagliavano fuori dal mondo circostante». Possibile? Dunque la pubblicità è arrivata al punto di usare i disabili pur di vendere? Poco più in là, il testo di questo annuncio della Nec svela che una maestra di Christian Murphy, 11 anni, ha scoperto che lui reagiva alle immagini della sua esistenza, e ha deciso di creare sul computer una storia visuale, collegata alla tastiera con piccoli disegni invece di parole. Un po? alla volta Christian ha cominciato a raccontare le sue esperienze e sensazioni utilizzando il video, e così ha costruito un sistema di comunicazione sviluppato fino al punto di superare la barriera dell’handicap, che gli ha permesso di farsi alcuni amici e vivere una vita normale.

Vi sembra ancora così scandaloso usare la sua storia per vendere un prodotto, ma nello stesso tempo informare altri disabili sulla possibilità di venire fuori dalla loro condizione? È importante dare una risposta precisa a questa domanda, perché la tendenza a rompere il tabù dell’handicap sembra radicarsi in modo sempre più consistente nel mondo della pubblicità. Nei mesi scorsi l’MCI, grande rivale della AT&T nello sconfinato mercato delle telecomunicazioni americane, ha martellato le televisioni per lanciare i propri servizi Internet. «Sulla rete – diceva lo spot – non esistono razze, sesso o handicap», e dargli torto è impossibile. Comunicando via computer, ad esempio, abbiamo conosciuto una ragazza di Trieste sorda, che sulla tastiera ha ritrovato l’udito e la parola, fino al punto di scrivere un apprezzatissimo libro sui segreti di Internet. Ma non basta. Quella stessa ragazza ha poi deciso di fare un’operazione all’avanguardia per recuperare un po? d’udito, e dopo la riuscita ha scritto un articolo su Avvenire sulla sua esperienza. Il risultato è che diversi non udenti l’hanno contattata via computer per conoscere i particolari dell’intervento, e magari alcuni di loro la seguiranno sulla strada della guarigione. Giusto o sbagliato fare una propaganda del genere ad Internet?

In Gran Bretagna il colosso British Telecom ha tentato qualcosa di simile, con una pubblicità che dice: «Non guardate agli handicap. Guardate alle abilità». Nella pagina a fianco c’è la foto di Peter Hull, nuotatore senza gambe che ha vinto tre medaglie ai Giochi Paraolimpici, e British Telecom spiega di avere una serie di servizi tecnologici per aiutare persone come lui: scandalo o buon senso?

La pubblicità di Christian di cui abbiamo parlato all’inizio riguarda i monitor della Nec, ed è uscita negli Stati Uniti a doppia pagina su giornali nazionali come Wired, Newsweek, Pc Magazine, e altre riviste specializzate. A realizzarla ci ha pensato l’agenzia Hill Holiday di Boston, su indicazione di Jane Rassmussen, responsabile delle pubbliche relazioni della Nec. I costi non sono stati rivelati, ma il prezzo di una pagina a colori su Wired è 25.425 dollari, e quindi ogni uscita è stata pagata 51 mila dollari, cioè quasi 90 milioni di lire. «Noi», ha dichiarato uno dei responsabili della pubblicità su Wired, John Fitzgerald, «non abbiamo problemi con iniziative del genere. La rivista rifiuta sistematicamente solo gli annunci sessuali e quelli dei produttori di sigarette: il resto si valuta caso per caso. Questa ci è sembrata un’iniziativa utile e non offensiva, perciò l’abbiamo accettata». Una portavoce della Hill Holiday è entrata poi nei particolari della campagna: «La Nec voleva illustrare le possibilità aperte da alcune nuove tecnologie, e fra le altre cose si è pensato anche ai disabili. Christian era l’allievo della madre di una persona che lavora per noi, e dopo aver conosciuto la sua storia abbiamo deciso di prenderlo come esempio». Metterlo sul giornale è stato abbastanza facile, «perché la cultura sta cambiando, e con essa si modifica anche l’attitudine verso i disabili. Però non so dire se è nato prima l’uovo o la gallina. È difficile stabilire se la presenza di nuove tecnologie utili agli handicappati abbia accelerato i mutamenti della cultura e della pubblicità, oppure se si è messo in moto un meccanismo inverso. In ogni caso ci è sembrato utile informare tutti di queste nuove possibilità». L’esperimento, secondo la Hill Holiday, ha funzionato: «Per quanto ne sappiamo, nessuno si è offeso. E molti educatori hanno chiamato la Nec per conoscere il caso di Christian, e ripetere il suo successo».

Naturalmente il dubbio su operazioni del genere resta, ed è lecito. Infatti si tratta comunque di pubblicità, che ha come scopo principale quello di vendere prodotti.«Dal punto di vista delle agenzie pubblicitarie e delle aziende», afferma il sociologo ed economista californiano Jerry Mander, «l’obiettivo è chiaro: da una parte allargare il mercato a nuovi segmenti di popolazione finora esclusi, e dall’altra cercare di accattivarsi le simpatie delle persone normali, dimostrando che le nuove tecnologie fanno anche del bene». Mander ha lavorato per anni nell’industria della pubblicità, prima di passare dall’altra parte della barricata con il Public Media Center di San Francisco, impegnato nel monitoraggio e nella critica dei media. «Quando si parla di cose del genere», prosegue il sociologo, «bisogna imparare a distinguere gli interessi economici delle aziende e quelli della gente. Ma è innegabile l’esistenza di nuovi strumenti capaci di superare le barriere dell’handicap, e dal punto di vista culturale è utile parlarne in libertà». Gli effetti si vedono già nella vita di tutti i giorni. Nella nostra classe alla Scuola di giornalismo della Columbia University di New York, c’era una ragazza canadese menomata dalla polio. A volte portava maglioni con le maniche troppo lunghe, per nascondere il braccio mutilato dalla malattia, ma in generale aveva imparato a pretendere una vita normale. Oggi lavora con successo per la Pbs, la tv pubblica americana, e magari in parte lo deve anche a quelle pubblicità che vede scorrere fra un suo notiziario e l’altro.

L’opinione
Un passo avanti

Ormai negli Usa l?utilizzo di persone portatrici di handicap per sponsorizzare prodotti anche non strettamente legati al sociale è diventato più di una semplice tendenza. Siamo di fronte a un vero passo in avanti della pubblicità. Da sempre, infatti, il mondo degli spot vuole essere lo specchio della realtà, a volte travisata, ma sempre strettamente legata al mondo in cui ciascuno di noi vive tutti i giorni. Per questo utilizzare l?immagine di portatori di handicap per promuovere un prodotto secondo me è un fatto positivo, per nulla di cattivo gusto: né sfruttamento, né scandalo. È rispecchiare una realtà che c?è. Se poi il prodotto sponsorizzato riguarda un aspetto socialmente utile, tanto meglio. Ma, comunque, non vedo motivi validi per non far apparire alcune persone sugli schermi televisivi. Tanto più che chi fa spot non è mai una persona singola, ma un?équipe che, in quanto tale, rispecchia diverse sfaccettature dell?identica realtà. In più, come pubblicitari abbiamo il dovere di raggiungere il maggior numero di persone facenti parte di una stessa società . Noi pubblicitari siamo allo stesso tempo diabolici e angelici, ma è il nostro mestiere: abbiamo il compito di impedirvi di andare verso il frigorifero o in bagno quando il vostro film preferito viene interrotto da uno spot. Ma state tranquilli: gli spot con persone handicappate vanno bene per qualsiasi luogo al mondo e quindi, presto o tardi, arriveranno anche in Italia.
di Gene Lofaro, vicepresidente Group Head International BBDO di New York

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