Formazione

Le parole che cambiano/ Viaggio

Ovvero ciò che non sappiamo più fare. Per Paolo Rumiz i grandi viaggiatori si sono estinti negli anni 40. Quando abbiamo smesso di usare la forma riflessiva del verbo partire: partirsi

di Sara De Carli

Oggi invece abbiamo l?illusione di conoscere il mondo, di essere cittadini globali, e l?incontro con l?altrove non ci fa più paura. Ci riteniamo viaggiatori disinvolti, ma lo siamo solo finché restiamo dentro gate, check in e grandi città, dove la globalizzazione ha semplificato il mondo e appiattito le diversità. Mentre la metafora del viaggio, per Rumiz, è una soltanto: passare un ponte affilato come un rasoio e sottile come un capello. Ovvero un luogo invivibile. Perché viaggiare è soprattutto saltare dentro un altro mondo. Viaggio, s.m. 1. Atto di spostarsi da un luogo all?altro compiendo un certo percorso. 2. Breve tragitto che si fa avanti e indietro per trasportare oggetti. 3. Volo dell?immaginazione (dal Dizionario italiano Sabatini Colletti) Vita: Un tempo c?erano l?esodo, la migrazione, l?esplorazione, il pellegrinaggio… Qual è la differenza principale con il viaggio che facciamo noi oggi? Paolo Rumiz: La parola partire un tempo si declinava in modo riflessivo, ?partirsi?, e cioè dividere se stessi, lacerarsi. Il viaggio quindi era segno di lacerazione. La partenza dalla propria Heimat, dal proprio microcosmo, nei popoli sedentari era vissuta come un trauma. Oggi in apparenza siamo dei viaggiatori disinvolti, abbiamo l?illusione di conoscere il mondo: perché la globalizzazione ce lo avvicina e le distanze si percorrono in tempi più brevi e perché ci sono meno diversità, al punto che il viaggio verso un grande luogo diventa sempre meno interessante. In realtà anche oggi chi intende fare un viaggio vero, chi vuole nuovamente ?partirsi?, ha bisogno dello stesso coraggio che ci voleva una volta, quando si partiva con meno sicurezze e comodità. Vita: Coraggio di fare cosa? Rumiz: La metafora del tagliare i ponti è fondamentale. La differenza tra una partenza vera e una finta è che in quella finta non ti stacchi mai completamente dal tuo mondo, con mille cose: telefonini, internet, tutta una serie di elementi rassicuranti che ritrovi in maniera infinita in giro per il mondo. Nel viaggio vero invece stacchi, te ne vai, e non ti porti dietro tutti questi elementi di collegamento. Si può fare anche in un viaggio breve, basta un chilometro per creare questa sensazione di ponti tagliati. Anche perché il primo chilometro di viaggio, quello che ti separa da casa, è infinitamente più lungo degli altri – poniamo – 1999 che seguono. Questo soprattutto quando la tua meta è stata lungamente desiderata e coltivata, ed è diventata un luogo dell?anima: acquisti quella strana sicurezza tipica del nomade, per cui anche il luogo più lontano è vicino. Vita: I nostri viaggi ormai sono dei ?teletrasporti? da un luogo all?altro. Il viaggio è nel flusso, nello spazio tra un luogo e un altro o nell?arrivare a una meta? Rumiz: Il viaggiatore vero deve essere lento, non può essere un conferenziere che viene invitato a destra e a manca. Cinque anni fa ho fatto un viaggio in bicicletta da Trieste a Istanbul. Per tutto il viaggio mi sono detto: «quando arriverò a Istanbul sarò orgoglioso di me stesso per aver coperto una simile distanza». Invece quando sono arrivato non ho provato nulla di simile. Come mai? L?ho capito al ritorno, in aereo, quando mi sono accorto che riconoscevo praticamente ogni curva della strada: tutto era maledettamente familiare, tutto sembrava il giardino di casa, vicino, piccolo. La lentezza in sostanza anziché dilatare le distanze le rattrappisce, le accorcia: tutto è riconoscibile e quindi sembra più vicino. La lentezza è un grande sovvertitore della logica matematica. Quanto al flusso o alla meta… Il vero viaggio è il grande volo verso l?altro mondo: che sì, vuol dire che devi un po? morire a te stesso e al vecchio mondo, ma soprattutto che devi imparare a saltare dentro un altro mondo. C?è una leggenda ottomana che ho imparato a Mostar: l?uomo giusto, quando muore, è l?unico che riesce a raggiungere l?aldilà perché è in grado di passare un ponte affilato come un rasoio e sottile come un capello. Il ponte è invivibile, devi per forza passare di là, ma lo sanno fare in pochi. Vita: Viaggiare con lentezza cambia solo la percezione delle distanze o anche quella dell?alterità delle culture? Rumiz: Noi avevamo puntato su Istanbul perché è una meta mitica, la porta dell?Asia, il luogo dove il cristianesimo è diventato religione di Stato, dove mille diversità si sono compenetrate… Era un viaggio controcorrente, verso sud-est, verso i minareti, nella direzione opposta alla grande fuga dei clandestini, e aveva sulla strada moltissime frontiere e il massimo delle diversità possibili. Ogni volta, in vista di qualche frontiera o di qualche luogo simbolico di passaggio, ci chiedevamo: «Chissà come sono gli uomini che incontreremo dall?altra parte? Quando avvertiremo la frontiera tra le due civiltà?». Questa frontiera non l?abbiamo mai trovata: ogni volta incontravamo dei simili, dei quali riconoscevamo perfettamente le gestualità, il sorriso, gli inviti ospitali. Vita: Ha trovato la frontiera da qualche altra parte? Rumiz: Un mese dopo quel viaggio a Istanbul sono stato in Cina, attraverso la Valle dell?Indo e il Pakistan. Dopo un passo di quasi 5mila metri siamo scesi nel Turkestan cinese e siamo rimasti impressionati dall?indifferenza dei cinesi nei nostri confronti. Lì mi son detto: «Adesso ho trovato alien». L?altro, l?alieno, si manifestava sul Karakorum con la forma di soldatini cinesi assolutamente inespressivi, con un rapporto strettamente utilitaristico con l?ospite che arrivava. Al punto che quando siamo rientrati in Pakistan, quando ho visto le guardie di frontiera islamiche dall?altra parte, al contrario mi sono sentito a casa, in mezzo a gente che viveva sulla mia stessa lunghezza d?onda. Quando vivi un?esperienza così, la guerra tra monoteismi fa ridere… Vita: Cos?è, Rumiz non ama la Cina? Rumiz: La Cina è allucinante, io non riesco a sintonizzarmi. E’ un luogo che non ha la stessa lunghezza d?onda dell?ospitalità del resto del mondo. Io non parlo della Cina come cultura millenaria, parlo di questa Cina, totalmente priva di anima, utilitaristica e economicistica, la perfetta realizzazione del capitalismo occidentale: è questo che non amo. Il problema è che l?abbiamo prodotto noi. Io credo che tutto sia cominciato quando abbiamo smesso di rapportarci con l?Oriente e abbiamo cominciato a viaggiare verso occidente. Era meno impegnativo prendere tre caravelle e far fuori mille indigeni che ti temevano perché non sapevano chi fossi, piuttosto che rapportarsi con i popoli molto più antichi del tuo che stavano a Oriente? La colonizzazione a occidente è stata una pacchia per noi, e ora ci torna indietro dall?altra parte, come americanizzazione della Cina. Vita: Nel viaggio ci si scontra con la fisicità, la fatica, gli odori, il corpo… cose che nella quotidianità tendiamo a ignorare. Cosa insegna questo tratto dell?esperienza? Rumiz: Il viaggio senza la fatica non esiste. L?uomo è fatto per camminare, e non è solo un discorso di vedere cose nuove, è proprio mantra, è che così si producono gli antidoti contro la civiltà di oggi, dove molta della permeabilità alle balle ansiogene con cui ci governano nasce dal fatto che stiamo troppo fermi. Siccome siamo sempre immobili abbiamo perso la visione globale della realtà, viviamo di primi piani e di flash, abbiamo perso ciò che nel nostro corpo produce l?estasi, la tranquillità, che è lo spostamento ritmico. Il corpo è una grande macchina di preghiera, intensa in senso ancestrale, come via di fuga dallo stress, dalla paura, come respiro, ripetizione, formula magica che nasce da un?andatura ritmica, esicasmo. Non è un caso che le grandi religioni monoteiste siano nate dai nomadi, da gente che viaggiava tutto il giorno con un ritmo sempre uguale e che produceva con questo ritmo delle litanie che avevano un effetto benefico ed estraniante rispetto alla realtà. Oggi noi diciamo che si producono endorfine, sostanze chimiche che creano ottimismo. Vita: Cosa porta sempre con sé? Rumiz: Da vent?anni alla vigilia di ogni partenza ho lo stesso dramma: il tipo di quaderno da portare. Perché ci sono dei tipi di andature che producono illuminazioni brevi e improvvise, magari di tre parole, e per quello bastano quadernini di 3x5cm. Altre volte invece ti serve un papiro. A vederlo da fuori fa ridere, però il lavoro di scrittura è fatto molto di metodica, non c?è illuminazione che tenga in assenza di metodo. Ma quando parti non sai in quel viaggio quale tipo di quaderno ti servirà di più: sei condannato a portare i quaderni sbagliati. Vita: Qual è il racconto di viaggio più bello? Rumiz: Moby Dick, lo so a memoria. Ci sono dei pezzi salvifici, con una ritmica eccezionale. Quando sei stufo di tutto, o hai la coscienza sporca, lo leggi e il viaggio dell?altro entra dentro di te. Anche questo è terapeutico. Chi è Paolo Rumiz Il triestino giramondo Paolo Rumiz è nato a Trieste nel 1947, e si dice «non trapiantabile». Da 35 anni però gira il mondo come giornalista, dal primo viaggio a Capo Nord su una Fiat 500, nel 1969, fino al grande reportage di questa estate per Repubblica, un pellegrinaggio a Gerusalemme in ventisei puntate. Il 2 dicembre è uscito il suo nuovo libro, Gerusalemme perduta, illustrato, firmato con Monika Bulay. Il viaggio più straordinario però è stato il giro d?Italia in treno, con Marco Paolini, nel 2002, «il miglior modo per conoscere questo Paese eroico e cialtrone».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA