Gentile Cristina Giudici, siamo volontari dell?associazione Africa Insieme di Pisa e conoscevamo Abu Wagne, senegalese morto nel carcere di San Vittore il 26 agosto scorso. È morto in un carcere sovraffollato dove stava scontando la pena “per aver rubato un paio di scarpe a un barbone”. Ci chiediamo quale difesa abbia avuto e in base a quale interpretazione di norme e disamina della pericolosità sociale siano stati confermati per lui gli arresti e perché non gli fosse stata concessa la condizionale. Non ci meravigliamo perché questo accade regolarmente a tutti gli immigrati in Italia. Il rifiuto di concedere misure alternative agli stranieri viene motivata dai giudici con una frase sempre uguale: «Per la sua condizione di straniero». E così le carceri si riempiono di stranieri, ma per Abu Wagne è finita male: in cella ha concluso la sua esistenza. È morto dopo aver chiesto più volte di essere ricoverato perché aveva male allo stomaco e gli era stato rifiutato. Anche questo è normale. I medici in carcere non si accorgono se un detenuto è stato picchiato o se arriva in cella un po? scioccato dopo il passaggio in questura. In carcere non esiste il diritto alla salute, se uno è malato di cancro non può essere operato perché rimane in attesa di ?differimento pena per cure?. Nello notte in cui è morto Abu Wagne, un bosniaco si è ucciso: era quasi a fine pena, quattro mesi per furto. Anche lì niente condizionale. Del senegalese ci rimangono gli interrogativi e il dolore dei parenti. Ci torna in mente quando, due anni fa, in agosto, ci giunse una lettera rinviata al mittente (deceduto, c?era scritto sulla busta). Un giovane tunisino si era ucciso nel carcere di Massa, si chiamava Sgahier. Si era ucciso quasi a fine pena dopo aver saputo della morte della madre. Forse si uccidono a fine pena perché sanno che per loro la pena non finirà mai. Le carceri si riempiono di stranieri, ma le loro morti sono solo una riga nelle cronache locali. Oggi in carcere ci sono 10700 stranieri, vite distrutte e gettate via. Una responsabilità pesante su cui dobbiamo riflettere guardando in faccia la realtà. Finché per lo straniero varrà solo lo stato di polizia, sarà ipocrita parlare di solidarietà con regole dimenticando il primato del diritto uguale per tutti.
Isa Ciani Campioni di?Africa Insieme?, Pisa
Cara Isa, ho appena scoperto che non si chiamava Abou Wagne il senegalese morto a san Vittore il 26 agosto scorso nel silenzio generale. Si chiamava Mouhamadou e aveva dato generalità false perché temeva di essere rimandato in Senegal. Era arrivato nel 1995 in Italia seguendo la rotta dei clandestini e non era mai riuscito a ottenere il permesso di soggiorno. Mouhamadou aveva già parecchi fogli di via, ma non aveva mai voluto tornare a casa. In Senegal faceva il pastore e aveva una famiglia numerosa, ma il sogno di metter via qualche soldo e tornare lo teneva qui, appiccicato alle strade di Pisa, protetto dalla comunità senegalese e dal capo religioso musulmano, il marabù. Ha fatto il venditore ambulante poi, prima del decreto Dini, aveva trovato una famiglia disposta ad assumerlo come collaboratore domestico. Ma poi la famiglia ha deciso di non volere un nero in casa. E così è partito per il nord. Milano lo ha inghiottito, per vari mesi i senegalesi di Pisa l?hanno cercato invano. Poi un giorno di agosto, vicino alla Stazione centrale, cerca di scippare un barbone e finisce a San Vittore. Il 27 agosto la sezione penale del carcere milanese è insorta: pentole contro le sbarre delle celle e qualche urlo. La sera prima un detenuto sconosciuto aveva chiesto assistenza medica, ma non gli era stata data. Il giorno dopo i compagni di cella l?hanno trovato morto. Ora è in corso una seconda autopsia: la prima ha accertato che il giovane detenuto dal nome sbagliato non aveva subito violenza, la seconda sta verificando se fosse tossicodipendente. I detenuti hanno voluto dimostrare la loro solidarietà con il rumore del carcere, rumore assordante che cerca di dire qualcosa. La famiglia che ha scoperto dai giornali dov?era Mouhamadou ora sa come è andato a finire il suo viaggio al nord. Lui aveva dato un nome falso nella speranza di sottrarsi al destino, di poter riscriverlo. Ma la storia non è certo dalla parte di chi non ha nome né cognome. La comunità senegalese, con l?associazione pisana Africa Insieme, ha chiesto all?ambasciata senegalese di aprire un?inchiesta sulla sua morte. Nei giorni scorsi alcuni parenti di Mouhamadou sono venuti a Milano per sapere qualcosa. Hanno chiesto aiuto al Naga, l?associazione di medici volontari che assiste stranieri senza permesso di soggiorno, ma sono tornati a casa senza la salma. Il suo corpo è ancora nell?obitorio di Milano. La famiglia rimane in attesa di una storia qualunque che possa sottrarlo all?anonimato. Perché in carcere più che fuori la distrazione è più forte della vita.
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