Formazione

La polizza che verr

Un'inchiesta. Il rapporto tra associazioni e grandi compagnie

di Ida Cappiello

Sono passati 14 anni dall?entrata in vigore dell?assicurazione obbligatoria per le organizzazioni di volontariato, un obbligo così importante da essere condizione essenziale sia per l?iscrizione all?Albo regionale, sia per poter concludere convenzioni con Stato, Regioni e qualsiasi altro ente pubblico. La norma sancisce l?obbligo di «assicurare i propri aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell?attività stessa, nonché per responsabilità civile verso i terzi». Una formulazione piuttosto generica, che ha generato da subito alcune difficoltà interpretative da parte delle organizzazioni e delle compagnie di assicurazioni. Fino a oggi, le esperienze ?sul campo? dimostrano come le compagnie di assicurazioni non abbiano affrontato il problema in modo organico e, come spesso accade, sia stato l?intervento di pochi a indicare la strada e gli strumenti.

Casi di eccellenza
Un ruolo importante per la corretta conoscenza del problema e per la ricerca di soluzioni assicurative è stato svolto da quasi tutti i Centri di servizio al volontariato, che hanno fatto una paziente e precisa opera di divulgazione, formazione e, in alcuni casi, di convenzione con assicuratori locali. I casi di eccellenza sul territorio spesso nascono dall?iniziativa personale di agenti sensibili al sociale, veri imprenditori con un?ampia autonomia gestionale, che sono riusciti a personalizzare polizze standard sulle esigenze delle associazioni o di soggetti svantaggiati.

«Le compagnie di assicurazione hanno sempre visto il mondo del volontariato come un soggetto al quale si può venire incontro, anche con disponibilità, ma sempre nell?ottica del favore, della concessione, non come un?opportunità di mercato», dice Giuseppe Lottini, agente di Zurich e di altre compagnie a Firenze e Toscana. «Noi abbiamo avuto diverse esperienze con associazioni del territorio, attive soprattutto nello sport per disabili, che avevano esigenze di coprire sia i rischi dei volontari a norma di legge, sia i rischi che i disabili stessi corrono durante l?attività sportiva. Abbiamo sempre trovato grande disponibilità da parte della sede centrale, ma bisogna mettersi nella posizione di chi chiede un?eccezione alla regola». Colpa della disinformazione, che perpetua l?immagine di un mercato povero, marginale. Le aziende semplicemente non sanno che non profit oggi significa un insieme vastissimo di realtà, molte delle quali hanno ormai una struttura organizzativa complessa e dunque ad alto potenziale di domanda assicurativa. Domanda diretta, ma anche indotta, fa notare un altro agente, Stefano Muda, distributore di Allianz Subalpina nell?Alessandrino e basso Piemonte: «Il primo contatto deriva dagli obblighi di legge, ma si potrebbe andare molto oltre: penso a tutti i problemi che hanno le famiglie dei disabili, il ?dopo di noi? in particolare. Attraverso le associazioni, le imprese potrebbero arrivare a queste famiglie, dialogare con loro ed elaborare soluzioni, forme di rendita vitalizia, ad esempio».

Aspetti poco indagati
Un ostacolo ?tecnico?, tuttavia, frena questo genere di iniziative. «Ad oggi non ci sono ancora studi accurati che riguardino la mortalità dei soggetti disabili o anziani, di conseguenza anche per le assicurazioni diventa difficile studiare prodotti ad hoc e ipotizzare tariffe appropriate», dice Daniele La Quintana, della direzione commerciale e marketing di Claris Vita. «La stessa società civile potrebbe farsi promotrice di ricerche in questo campo. Lo stesso fenomeno della non autosufficienza, che pure in prospettiva interesserà milioni di persone, è poco indagato, e attende ancora risposte che affrontino con realismo i costi tremendamente elevati dell?assistenza. Le compagnie che stanno provando a cimentarsi con questa sfida (ad esempio Alleanza con la copertura Long Term Care prevista nelle polizze Alleata e Allerendita) devono porre limiti rilevanti alle garanzie, come l?esclusione di soggetti con malattie che rendano troppo alto il rischio di non autosufficienza».

Ma l?attenzione al terzo settore può davvero essere redditizia per un?impresa? Le esperienze anglosassoni e di altri paesi europei rispondono di sì. Il problema è distinguere tra profitti di breve periodo e a lungo termine: ne è convinto Tiziano Mariani, agente Axa in Monza e Brianza. «Le tariffe praticate a questo tipo di clientela sono quasi sempre inferiori rispetto al mercato, quindi non possono generare grandi profitti. Nell?immediato, si parla di pochi clienti occasionali, quindi poco interessanti. In una prospettiva più strategica, invece, i clienti possono diventare tanti, a patto di abbandonare la logica dell?eccezione, mettendo in catalogo prodotti ad hoc e promuovendoli su vasta scala. Penso solo alla rc auto per disabili: quanti potrebbero essere i clienti? Secondo me molti di più di quanto si pensi».

Ha lavorato proprio in questa direzione l?agenzia Ras Roma Trionfale, una vera azienda di medie dimensioni in grado di elaborare strategie di mercato autonome. «Siamo riusciti ad accumulare una buona esperienza con i disabili, cercando di comprendere i loro reali bisogni con interviste dirette alle persone», spiega uno dei titolari, Fabrizio Boccia. «Un esempio concreto: sulla polizza Rc auto, grazie a questo dialogo, abbiamo messo a punto una serie di garanzie aggiuntive, che vanno dall?assistenza urgente per sostituire la gomma forata al rifornimento di benzina se si resta a secco».

Il non profit impari a pesare
Sul sito di un colosso inglese delle assicurazioni come Marsh, in home page, insieme alle ?large organitations? , ai ?mide size businesses? e ai ?private clients? ecco che trovate la voce ?associations and affinity groups?. In poche parole, per il mondo assicurativo inglese il terzo settore è equiparato ai grandi clienti. E in Italia? La filosofia dell??affinity group?, cioè del gruppo con omogeneità di rischi e di profili, deve ancora farsi largo. Eppure i numeri potrebbero indurre tutti a ragionare: tra organizzazioni, enti religiosi e cosiddette ?aree deboli? il portafoglio che il non profit muove oggi in Italia è contraddistinto da molti zeri. E la legge 266 sul volontariato impone alle associazioni di assicurare i propri volontari. Per avere un?idea dei numeri in gioco, si pensi che nella provincia di Milano, sulle 1.087 associazioni che nel 2004 risultavano iscritte nel registro, il 60% aveva stipulato un?assicurazione collettiva, il 18,1% un?assicurazione individuale, l?8% l?una e l?altra.

Per ora la percezione di questa ?emergenza? è più nell?attività e nelle scelte degli agenti sul territorio che non nelle strategie delle grandi case. Per questo Vita, iniziando una serie di servizi dedicati al rapporto tra il mondo del non profit e il mondo delle assicurazioni, ha voluto partire da loro. Un ruolo importante lo stanno svolgendo i Csv, come conferma Marco Granelli e come testimonia l?esperienza torinese presentata nella pagina a fianco. L?obiettivo quindi è quello di avviare un cammino, perché il non profit assuma sempre più il profilo di affinity group. Un cammino sulla carta, sul web. E che approderà in un convegno alla prossima edizione di Civitas.

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