Mondo
Io, sequestrata in Darfur
Per la prima volta, parla un'operatrice umanitaria italiana vittima di un agguato in Darfur. Nel numero di Vita in edicola, reportage sulla cooperazione italiana in Sudan
Lavorare in Darfur è estremamente difficile. I rischi che corrono gli operatori umanitari sono quotidiani. Ma mai avrei immaginato di subire un agguato2. Inizia così la testimonianza di Elena Ferrero, rientrata da poche settimane in Italia dopo una missione di oltre sei mesi per Intersos in Darfur, una regione del Sudan occidentale, martoriata da una guerra civile che dal febbraio 2003 ha ucciso almeno 180mila persone, generando oltre due milioni di sfollati. La Ferrero ha operato nell1area di Habila, in West Darfur, su progetti di emergenza dedicati ai giovani e alle donne, categorie sociali tra le più colpite dal conflitto. “Un’esperienza fantastica”, segnata da uno dei tanti, troppi agguati che in Darfur ostacolano pericolosamente gli interventi degli umanitari. A Vita, Elena ha deciso di rivelare i retroscena del sequestro, l1unico subito da un cooperante italiano.
“Era una domenica mattina del 21 agosto, nei pressi di Habila, una cittadina distante circa 90 km a sud di El Geneina, il capoluogo del West Darfur. Mi trovavo in un convoglio umanitario. A otto-nove chilometri da Habila, la prima macchina è stata fermata da due uomini mascherati e armati che indossavano divise militari. Io mi trovavo sulla seconda macchina, a circa trenta metri di distanza. Sin da subito, ho capito che si trattava di un’imboscata. Uno di loro si è avvicinato alla nostra auto, e mentre scendevo altri due uomini sono spuntati dal bush puntando le armi contro di noi”.
Vita: Quanti eravate?
Ferrero: In otto. Cinque operatori sudanesi e tre espatriati, io, un francese e un keniota. Fra noi, c1era pure un neonato. Dapprima ci hanno fatto sedere a terra lungo la strada, per poi costringerci a incamminarci nel bush. Abbiamo camminato per circa dieci minuti per raggiungere una zona isolata. Per prima cosa, ci hanno preso i telefoni satellitari e i soldi. Poi hanno iniziato a controllarci uno a uno con i fucili puntati.
Vita: C’era nervosismo?
Ferrero: Tra loro, molto. E lo sono diventati ancora di più quando si sono accorti che uno dei nostri driver non aveva consegnato tutti i suoi soldi. Penso per sbaglio. Ricordo che la tensione è salita alle stelle. Hanno iniziato a frustare il nostro driver, per poi minacciarci di morte.
Vita: Pure tu sei stata minacciata?
Ferrero: Sì, la cosa era indistinta. Parlavano in arabo, ma il nostro amministratore ci traduceva tutto. Non potrò dimenticare le minacce di morte rivolte ad una mamma e al suo neonato. E1 stato terrificante! Così come terrificante è stato il momento in cui hanno deciso di dividerci. Gli uomini da una parte, le donne dall1altro. Addirittura mi hanno separato i bianchi dal resto del gruppo.
Vita: Quindi ti sei ritrovata isolata?
Ferrero: Sì, e la cosa è piuttosto brutta perché finché sei in gruppo, riesci in qualche modo a superare le tue paure. Ma dal momento che sei sola, costretta a voltare le spalle e a sentire i tuoi sequestratori ricaricare i loro fucili minacciandoti, beh la paura è devastante.
Vita: Ma si è trattato di un sequestro o di un rapimento?
Ferrero: Se si tratta di un sequestro, è durato poco. Il tempo comunque per rubarci tutto. Si vedeva che non erano dei delinquenti qualunque.
Vita: Sarebbe a dire?
Ferrero: Le nostre macchine sono state svaligiate da cima a fondo. Si è trattato di un1operazione molto meticolosa che è durata almeno mezz1ora. Così come sono comparsi sono poi spariti.
Vita: Non ci sono state seguiti a questa vicenda? Nessun arresto?
Ferrero: No. Abbiamo fatto una denuncia ai militari sudanesi. Ma ho percepito una certa impotenza rispetto a quanto ci era accaduto. Quasi come se questo tipo di attacchi fosse una cosa ricorrente da quelle parti. Quindi difficilmente contrastabile. Probabilmente perché le imboscate e gli attacchi contro operatori umanitari sono moneta corrente in Darfur.
Vita: Che segni ti ha lasciato il Darfur?
Ferrero: E1 stata un1esperienza molto dura, e non solo per il sequestro. In Darfur, gli operatori umanitari lavorano in condizioni estreme e le pressioni sono enormi. Ma sul piano umano e professionale, è stata un’esperienza stupenda che non potrò mai dimenticare.
A mò di postilla, vi proponiamo un intervento del Segretario generale di
Intersos, Nino Sergi:
Ciò che è successo ad Elena è grave e si sta ripetendo anche in aree ritenute finora sicure. Le Ong stanno tutte adottando precise misure di sicurezza per non incorrere nuovamente a pericolose rapine di questo tipo. Le strade insicure si evitano e si raggiungono i villaggi e le località dove operiamo con i profughi e le altre popolazioni solo via elicottero. Il problema rimane nelle zone che riteniamo sicure e che, di punto in bianco, diventano anch’esse aree di imboscate di questi uomini armati a cavallo o a cammello. L’altro giorno è successo proprio lungo una di queste strade ritenute sicure e percorse quasi quotidianamente per raggiungere i villaggi in cui operiamo. Questa volta è stato però diverso: non si è notato alcun nervosismo e, alcune ore dopo la rapina di quel poco che c1era nelle auto, tra cui due telefoni satellitari, ci è arrivata da uno di questi (ad un nostro numero memorizzato) una telefonata di scuse e di promessa che quanto rubato sarebbe stato restituito perché 3non ci eravamo accorti che siete l1organizzazione umanitaria che lavora con tutti2. Segno che qualcosa sta cambiando? Che è possibile aprire qualche forma di dialogo? Adotteremo regole di sicurezza ancora più severe nel garantire la continuità degli aiuti, ma questa telefonata ci ha veramente colpiti e incuriositi.
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