Non profit

E se la fondazione apre un ristorante?

Il parallelismo tra socio di un’associazione e promotori di una fondazione non è congruo

di Carlo Mazzini

Stiamo costituendo una fondazione in provincia di Bologna e la domanda che ci si è posti fra i promotori è questa. È possibile che la Fondazione, oltre alle entrate provenienti dalle donazioni, possa esercitare un?attività di ristorazione il cui ingresso sia riservato ai soli soci e che i proventi di questa attività vengano utilizzati per gli scopi non di lucro della fondazione stessa? S. S. (email) Sono due gli errori di fondo che rilevo nel quesito del nostro lettore. E più precisamente sono questi. Il primo. I soci, in una fondazione, non esistono; almeno nell?accezione di soci che abbiamo in relazione all?idea di associazione. Banalizzando un po? il concetto, non è che un gruppo di amici costituiscono un sodalizio per fare insieme qualcosa e pertanto scelgono la veste della fondazione. Se intendono costituire una fondazione è perché vogliono destinare un patrimonio a favore di un progetto/causa, e per poter indicare personalmente gli amministratori. Pertanto, è evidente che il parallelismo tra socio di un?associazione e promotori della fondazione non è congruo. Nel quesito, infatti, si fa implicito riferimento a una norma che prevede la non imponibilità dei proventi derivanti dalla vendita di beni o servizi a favore di associati (articolo 148, comma 3, del dpr 917/ 1986), norma applicabile solo agli enti di tipo associativo, non alle fondazioni. Peraltro ai commi successivi si nega (con l?eccezione delle associazioni di promozione sociale) detta decommercializzazione anche alle associazioni quando si tratti di gestioni di mense e di somministrazioni di pasti e bevande. Quindi, ammesso e non concesso che sia ammissibile l?attività di ristorazione (e dipende – come vedremo in seguito – dai fini della fondazione), comunque essa si configurerebbe come vera e propria attività commerciale. E arriviamo al secondo errore. Esso consiste nell?affermare che i proventi verrebbero «utilizzati per gli scopi non di lucro della fondazione». Mi sembra insensato dire che i proventi – qualsiasi sia la loro origine – saranno utilizzati per scopi privi di connotati lucrosi. Gli scopi di una non profit, infatti, viaggiano alti, hanno natura ideale, non toccano la sfera economica. È la redistribuzione delle risorse generate che non deve essere allocata a favore di chi agisce all?interno di una non profit. Gli utili possono invece essere reinvestiti (almeno in parte) in una eventuale tranche commerciale (o simil tale), quando questa ha diritto di esistere. Diversamente una onlus dovrebbe investire eventuali redditi da attività connesse nelle sole attività istituzionali dell?anno successivo. E così non è, dato che esiste «l?obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle a esse direttamente connesse? (decreto legislativo n. 460/1997, articolo 10, comma 1, lettera e). Sulla regolamentazione delle attività commerciali in un ente non profit ce ne sarebbe da dire e da studiare. Qui interessa ricordare che il loro diritto di cittadinanza è limitato al fatto che esse devono essere svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali. Nella legge onlus il limite (delle attività connesse) è stato quantificato con una formula solo apparentemente cervellotica, ma che invece ha un senso. Il legislatore, dicendo che esse non devono essere prevalenti né devono generare un rapporto superiore a 0,66 tra le loro entrate e le spese complessive dell?ente, afferma il sano principio che non di sole connesse deve vivere una onlus, e che almeno la metà delle entrate dell?ente deve avere natura o origine istituzionale.


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