Mondo

Unesco: 2 anni dopo il rientro gli Usa pensano già a nuovo ritiro

Dopo l'approvazione della Convenzione sulla diversità culturale gli Usa sono isolati all'interno dell'organizzazione dell'Onu per l'istruzione, la scienza e la cultura.

di Chiara Brusini

Louise Oliver, la rappresentante all’Unesco degli Stati Uniti, non riesce a digerire il fatto che i francesi considerino il foie gras, come il vino, un prodotto culturale. L’idiosincrasia della Oliver per l’equazione ‘alimentazione uguale cultura’ e’ una delle componenti della disfatta subita, il mese scorso, sulla convenzione per la diversita’ culturale: 148 Paesi, con quattro astenuti -Australia, Liberia, Honduras, Nicaragua – hanno votato a favore, solo gli Usa e Israele contro. E cosi’, due anni dopo esserci rientrati, gli Stati Uniti stanno gia’ interrogandosi se valga la pena restare nell’Unesco o se non sia il caso di andarsene di nuovo, dopo che la signora Oliver, li’ per meriti politici, e non diplomatica di carriera, s’e’ trovata quasi isolata in un voto cruciale, il suo primo. Dopo la batosta, la Oliver ha avuto consulti a Washington. In conversazioni con giornalisti, la signora non esclude che gli Usa possano riconsiderare la partecipazione all’Unesco o, almeno, il finanziamento dei programmi. Anche se fonti del Dipartimento di Stato, che chiedono di restare anonime, dicono: ”Non siamo al punto di lasciare l’organizzazione”. Ufficialmente, gli Stati Uniti si erano subito detti ”molto delusi” per la decisione dell’Unesco di varare la Convenzione: il Dipartimento di Stato aveva diffuso un irritato comunicato. La Convenzione e’ un complesso di disposizioni che vogliono svincolare la cultura dalle norme del commercio internazionale, contribuendo a salvaguardare la diversita’ delle espressioni e riducendo di fatto l’egemonia americana e dell’inglese. I fautori dell’iniziativa sperano che essa contribuisca a difendere la diversita’ culturale dagli effetti negativi della globalizzazione. Ma gli Stati Uniti temono che essa possa servire ad altri scopi: ”Siamo una societa’ multiculturale che rispetta pienamente la diversita’ delle espressioni culturali dei Paesi e dei popoli stranieri -e’ la tesi messa per iscritto al Dipartimento di Stato-. Difendiamo il libero scambio e ci dispiace che la Convenzione rispecchi gli sforzi di certi Paesi per portare avanti obiettivi protezionisti sotto la copertura della protezione della diversita’ culturale”. Un’accusa a Francia e Canada, i principali ispiratori e fautori della Convenzione, e ai Paesi dell’Ue, schierati compatti a favore. In tal modo, tradizionali alleati Usa si sarebbero fatti complici di Paesi come Iran e Cuba che, invece, vorrebbero utilizzare la Convenzione per limitare la liberta’ d’espressione e conculcare, una volta di piu’, i diritti umani. Il documento era in discussione fin dal 2001, cioe’ da prima che gli Washington decidesse di rientrare all’Unesco, nel 2003. Ma il voto di ottobre e’ stato il primo, fallimentare, banco di prova della capacita’ americana di pesare nell’organizzazione dell’Onu per l’istruzione, la scienza e la cultura. La Convenzione e’ stata approvata, il 20 ottobre, a Parigi, nel corso della 33esima Conferenza generale, mettendo ai voti un testo presentato in primavera: il risultato non e’ stato una sorpresa perche’ la commissione cultura aveva gia’ dato l’ok, con un risultato quasi fotocopia. Il principio cui il documento s’ispira e’ l’uguale dignita’ di tutte le culture dei Paesi del mondo. In una quarantina di pagine, la Convenzione afferma, fra l’altro, che i patrimoni culturali vanno salvaguardati considerando la cultura elemento della politica di sviluppo. Attivita’, beni e servizi culturali non vanno, cioe’, trattati solo in rapporto al loro valore commerciale: un modo per dare rilievo ai saperi tradizionali. I governi firmatari saranno liberi di applicare loro proprie politiche culturali, purche’ esse siano conformi ai principi della Convenzione, e dovranno cooperare con i Paesi piu’ poveri perche’ anch’essi possano fare altrettanto. Le ragioni del no degli Usa non hanno convinto i partner dell’Unesco. Dopo la presentazione del testo, in primavera, Washington aveva sentito ”odore di bruciato”, intensificando l’azione anti-Convenzione. Parlando a giornalisti europei e asiatici, Dana Gioia, poeta, presidente del National Endowment for the Arts, denunciava la frustrazione dell’artista che vedrebbe ridotta la propria liberta’ dalla Convenzione: un atteggiamento tipicamente americano, poco conscio, pero’, delle situazioni nei Paesi in via di sviluppo e delle regole della diplomazia internazionale. ”Gli europei sono stati tutti zitti -raccontava, piu’ scandalizzato che sorpreso, Gioia, dopo una riunione all’Unesco-: ha parlato solo il Lussemburgo” che, pero’, aveva la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue. La battaglia americana contro l”’eccezione culturale”, propugnata da tempo dalla Francia rispetto alle regole Wto, l’Organizzazione del commercio mondiale, e’ stata compromessa, fra l’altro, dal sospetto che Washington stesse soprattutto difendendo Hollywood e la sua egemonia. Il nervo e’ scoperto: ”Non e’ cosi”’ dice, prima ancora che qualcuno glielo chieda, l’ambasciatore Oliver, parlando a giornalisti. Fatto sta che gli Stati Uniti non sono riusciti a coagulare il consenso intorno alle loro preoccupazioni: una quindicina di Paesi hanno accompagnato il loro si’ con dichiarazioni a tutela della liberta’ degli scambi e dei diritti umani; e, afferma la Oliver, qualche altra delegazione avrebbe espresso, ”privatamente”, riserve. Perche’ la Convenzione entri in vigore, dovra’ ora essere ratificata da almeno 30 Paesi: ”Sorveglieremo attentamente il processo di ratifica e poi l’attuazione” del documento, avverte l’ambasciatrice. Pronta a dare di nuovo battaglia: sul tavolo dell’Unesco restano due problemi che stanno a cuore agli Usa, la bioetica e la lotta al doping nello sport.


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