Volontariato

30 anni dalla morte: Chi era Pier Paolo Pasolini?

A trent'anni dall'omicidio di Pier Paolo Pasolini, in chi fosse veramente uno fra i massimi artisti del novecento italiano risiede forse il grande fascino e la profondità di un uomo

di Riccardo Bagnato

Chi era Pier Paolo Pasolini? In occasione del trentennale dalla sua morte, “Panorama” lo ha chiesto ai giovani di oggi: un regista per il 35%, uno scrittore per il 34%, un poeta per il 20%. Chi era Pier Paolo Pasolini? Sull’enciclopedia c’è scritto: Scrittore e regista cinematografico (Bologna 1922 – Roma 1975). Personalità complessa, assai spesso provocatoria e ricca di originali intuizioni, è stato artista fecondissimo. La sua produzione è segnata dal dilemma tra l’istintivo richiamo ancestrale alla tradizione contadina e uno sforzo di razionalizzazione stimolato dalla scoperta del marxismo e delle scienze umane. Ha scritto liriche in lingua e in dialetto friulano (Poesie a Casarsa, 1942 – poi raccolte con altri versi in La meglio gioventù, 1954 -; Le ceneri di Gramsci, 1957; La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971) e romanzi sulla vita dei giovani delle borgate romane (Ragazzi di vita, 1955; Una vita violenta, 1959). Altre opere di Pasolini: Alì dagli occhi azzurri (1965); testi teatrali: Calderón (1973), Affabulazione (postumo, 1977); saggi: Passione e ideologia (1960), Scritti corsari (postumo, 1975). Ha diretto i film: Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini (1965), Edipo Re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969), Medea (1970), Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Concluse tragicamente la sua vita nel 1975, ucciso nei pressi di Ostia. Chi era Pier Paolo Pasolini? Un’intellettuale che sapeva – si dice adesso, ma non allora – ragionare con la propria testa, proprio nel momento in cui molti, fra loro, lo facevano con la tessare di partito in tasca dove, mozza, era rotolata anche quella. Era un intellettuale disorganico, diremmo, ma no. Non basta. E pure “il ragionar col capo proprio” non è che una scusa, con cui nascondere il suo e il nostro narcisismo. Non basta nemmeno ricordare le polemiche del 1968, in occasione di un suo intervento, “Il Pci ai giovani!!“, con cui attaccava duramente il partito a cui si era iscritto nel 1947: quando difese i poliziotti d’origine proletaria contro gli studenti, figli di borghesi e piccolo-borghesi. Nemmeno basterebbe elencare gli innumerevoli processi di cui stato pretestuosamente vittima, tanto da testimoniare, senza alcuna ombra di dubbio, una vera e propria persecuzione. Chi era Pier Paolo Pasolini? Fu ucciso nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, sul lungomare di Ostia. Il corpo fu ritrovato la mattina successiva, su una strada accidentata che portava ad un campo di calcio amatoriale. Fu chiaro da subito che il regista-poeta era stato vittima di un’aggressione particolarmente brutale: il corpo presentava ferite gravissime alla testa e al torace, ed inoltre erano evidenti i segni del passaggio di un auto; si scoprirà poi, tramite l’autopsia, che la morte era sopraggiunta per la rottura del cuore, in seguito al passaggio dell’autovettura sul torace, ma che le percosse subite avevano già provocato un’emorragia cerebrale. Chi era Pier Paolo Pasolini? A trent’anni di distanza viene ancora ricordato dall’80% dei giovani. Gli stessi giovani che vengono presi in ballo quando si tratta di citare la caduta dei valori, la vacuità della produzione televisiva, l’imperante consumismo. Cose di cui Pier Paolo Pasolini stesso aveva messo in guardia. Chi era Pier Paolo Pasolini? Chi era quel desiderio di solitudine? Di cui parla Pier Paolo Pasolini in “Meditazione orale” che state ascoltando in sottofondo su musica di Ennio Moricone? Chi era quel giovane friulano che si laureò a Bologna con una tesi su Giovanni Pascoli? Chi era Pier Paolo Pasolini? Così lo ricordava Giovanni Testori, in un articolo del 1975 dal titolo “A rischio della vita”, scritto qualche giorno dopo l’assassinio del poeta, regista, romanziere friulano: Sull’atroce morte di Pasolini s’è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l’angoscia dell’essere diviso, dell’essere soltanto una parte dl un’unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l’angoscia dell’essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l’abitudine di chiamare “diversi”. Allora, quando il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s’è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d’odio e d’amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un “qualcuno”; quel “qualcuno” che ci illuda, fosse pure per un solo momento, dl poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell’unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l’inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l’altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere dl fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s’abbia neppure il tempo per fare d” questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita. Del resto, chi potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell’angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d’intendere. Si parte; e non si sa dove s’arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l’incontro, l’illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s’è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l’unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella “nientità” della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s’allungano; più difficile si rende la possibilità che quell’incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la “via crucis” della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, dl quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?


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